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di Ida Meneghello

Parafrasando Pascoli, c’è qualcosa di nuovo oggi nel cinema italiano, anzi d’antico. E per dirla con quel gran genio di Geppi Cucciari: ho visto un film di donne che anche gli uomini possono capire. Di quale film sto parlando?
Parlo di “Gloria!” (col punto esclamativo) scritto e diretto da Margherita Vicario, esordiente che finora faceva un altro mestiere, faceva musica, presentato in concorso al festival di Berlino.
La forza travolgente della musica è la vera protagonista della pellicola e della storia che racconta, ambientata all’alba del 1800 al “Sant’Ignazio”, un decrepito istituto musicale per orfane dalle parti di Venezia. Le ragazze che ne sono protagoniste, abbandonate dalle loro famiglie ma dotate di uno straordinario talento per la musica, sono tutte meravigliose: c’è Galatea Bellugi che fa Teresa “la muta”, Carlotta Gamba è Lucia che quasi si suicida per amore, ma soprattutto c’è la voce potente di Bettina, ovvero Veronica Lucchesi, la voce del duo “La Rappresentante di Lista” che canta come facesse teatro e che già Paolo Sorrentino aveva voluto per la colonna sonora di “The New Pope”.
La storia raccontata nel film – si immagina che Pio VII, eletto Papa a Venezia perché Roma era occupata dalle truppe napoleoniche, vada in visita proprio al “Sant’Ignazio” e in suo onore l’abate debba comporre un concerto essendone del tutto incapace – dunque questa storia tra verità e fiction è solo un pretesto per permettere alla regista di fare una doppia operazione: da un lato, come recita la dedica finale, rendere omaggio a tutte le donne che hanno fatto la musica nei secoli e sono state cancellate dalla narrazione degli uomini; dall’altro esaltare proprio il potere salvifico della musica.
Questo potere è raccontato con un doppio salto mortale senza rete: le orfane del “Sant’Ignazio” inventano, attraverso la scoperta di un nuovo strumento che è il pianoforte, una musica che scavalca i secoli e che da Vivaldi esplode in ritmi e arrangiamenti blues e jazz assolutamente contemporanei. Ovviamente quella musica risulterà incomprensibile e scandalosa nel 1800 e provocherà la scomunica papale.
La storia mette in risalto anche un altro aspetto che ha che vedere con le dinamiche reali negli spazi chiusi di un orfanotrofio o di un collegio: solo il gruppo può sostenere la persona. Tu chiamala se vuoi “sorellanza”, ma in questo film non c’è traccia di retorica e la narrazione procede spedita grazie a una regia e a un montaggio col ritmo giusto e senza indulgenze.
Ottimi i cammei di Elio (ovvero Stefano Belisari) delle Storie Tese e di Paolo Rossi nella tonaca del perfido abate Perlina.
Conclusione. Non occorre essere insegnante di yoga (e io lo sono) per sapere che solo il noi salva l’io. E che in questa salvezza la musica, l’unica lingua umana universale, ha un ruolo fondamentale, come sempre avviene quando le voci diventano un coro.
Per dirla con Paolo Conte:
“La vera musica che sa far ridere
E all’improvviso ti aiuta a piangere
La grande musica frequenta l’anima
Col buio inutile e non si sa perché
E non si sa perché…”