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di Giampiero Rasimelli

L’ultimo libro di Mauro Agostini “L’Umbria e la fine del partito degli Appennini” (Morlacchi Editore) si propone come stimolo e provocazione di un dibattito più approfondito e produttivo sulla storia recente dell’Umbria, sulle innegabili difficoltà che oggi vive e sulle sue prospettive, nell’immediato e nel lungo periodo. Nella sua disamina Agostini affronta il lungo travaglio della sinistra e del centrosinistra in tutto il recente trentennio, illustra e valuta i nodi strutturali cui la politica e le istituzioni hanno dovuto dare risposte e cui non sono state in grado di rispondere, fornisce una ricostruzione della caduta elettorale del PDS/DS/PD e dei suoi scontri interni, valuta il fallimento dell’esperienza di governo del centro destra negli ultimi 15 anni prima nelle città e poi alla Regione. Il tutto collegato alla evoluzione della scena nazionale e internazionale in cui questi avvenimenti si sono svolti, un contesto che li ha accompagnati, condizionati e orientati.

Il quadro analitico e di contesto che il lavoro di Agostini propone lo trovo adeguato, migliore di tante altre ricostruzioni storiche della vicenda umbra più conformi ad un modello di analisi dell’evoluzione del sistema politico umbro connotato da uno schema politicistico e conservativo.  Questo distinguo rappresenta in realtà il carattere fondativo dell’analisi di Agostini che dichiaratamente vuole esprimere una sua lettura, un’altra lettura della vicenda umbra.

Per essere sinceri e prima di passare alla discussione di merito sull’impianto analitico, i cui spunti in parte condivido, esprimo solo una perplessità. La narrazione della vicenda politica personale di Mauro rischia di ridurre e in qualche caso di impedire di vedere tutta la complessità e l’articolazione della storia della politica umbra degli anni 80/90 sull’asse innovazione-conservazione. Anche se poi il filo delle nostre diverse analisi può ricongiungersi su alcune questioni fondamentali. 

Detto questo passiamo ai contenuti del libro e comunque alla testimonianza che ci consegna Agostini. Innanzitutto la periodizzazione. L’autore focalizza l’analisi soprattutto a partire dagli anni 90, a mio giudizio, invece, bisognerebbe riflettere meglio sugli anni 80, perché è in quegli anni che si sviluppa un contrastato rinnovamento generazionale del PCI e uno scontro nazionale e locale sulle politiche e gli orientamenti politici del più grande partito della sinistra italiana con culmine il 17° Congresso nazionale del PCI (Firenze 1986), quello della discussione sul nucleare, sull’ l’ambientalismo, sul pacifismo, sul femminismo, quello della prima, vera discussione sulla forma partito, quello della fuoriuscita dal periodo dell’unità nazionale contro il terrorismo come coniugazione concreta del Compromesso Storico.

Nel 1985, a gennaio, il PCI umbro tenne una Convenzione di Programma che precedeva e preparava il percorso congressuale a livello regionale (delle Federazioni Provinciali) e nazionale. Si tratto’ di un passaggio determinante. Nelle 135 pagine del documento a base della convenzione programmatica si trovano tutti i termini dello scontro tra innovatori e conservatori che Agostini indica, almeno in parte, nel suo testo. 

Vale la pena ricordare per il lettore il profilo di alcuni eventi politici che caratterizzarono l’Umbria dei primi anni 80 e di cui il PCI fu grande protagonista. Nel 1981, a 20 anni dalla Marcia della Pace Perugia-Assisi di Aldo Capitini una enorme moltitudine di persone, sospinte da uno schieramento amplissimo di Istituzioni, associazioni e movimenti laici e religiosi, forze politiche, riprese il cammino della pace in un altro momento di grande tensione internazionale. Nel 1983 Il PCI organizzo’  con Enrico Berlinguer una grande manifestazione per la pace da Santa Maria degli Angeli ad Assisi, durante la quale si realizzò l’incontro al Sacro Convento di Assisi tra il Segretario del PCI e i Frati di Assisi. A giugno del 1983 vennero inaugurate a Perugia le scale mobili che attraversano la Rocca Paolina, realizzazione che aprì una stagione di interventi sulla mobilità alternativa per i quali la città divenne un modello riconosciuto e studiato in tutta Europa. Dopo la morte a Padova di Berlinguer nel 1984 si tennero le elezioni Europee nelle quali il PCI ottenne in Umbria il 48% dei suffragi.  Sempre nel 1984 si tenne a Perugia l’European Nuclear Desarmement Convention promossa dalla fondazione Bertrand Russel, un momento fondamentale per il movimento pacifista italiano, che apriva un dialogo significativo con i dissidenti dell’est Europa nel pieno del conflitto sugli euromissili. Ancora nel 1984 si sviluppò un dialogo pubblico tra il PCI Umbro e l’Arcivescovo di Perugia Mons. Pagani sul rapporto tra comunisti e cattolici in Umbria. In quegli anni, inoltre, si aprì la discussione sulle caratteristiche e le debolezze strutturali del modello economico umbro di cui cito per testimonianza il volume edito da De Donato nel 1983 dal titolo “Il sistema politico locale: Istituzioni e società in una regione rossa, l’Umbria”.

Questa era la realtà politica e il clima culturale di quella prima metà degli anni 80 in Umbria da cui emersero le tesi della Conferenza di Programma del PCI nel gennaio 1985. Soffermiamoci su tre punti di quel testo che sono ancora oggi al centro del dibattito nazionale e locale. Il primo è che in quegli anni si aveva già una percezione piuttosto precisa dell’incidenza che lo sviluppo tecnologico avrebbe avuto nella trasformazione profonda degli assetti produttivi, del mercato del lavoro, dei mercati a livello nazionale, europeo e internazionale, del rapporto tra politica ed economia (il peso crescente dell’economia finanziaria innanzitutto), del mutamento dell’opinione pubblica. Le grandi conquiste ottenute con lotte e fatiche dall’Umbria negli anni 50/60/70 si affacciavano ai bordi di questo turbinoso mutamento di scenario nazionale e internazionale con tutte le debolezze strutturali e i percorsi incompiuti propri della vicenda regionale. La proposta della Convenzione di Programma dell’85 era di compiere un inedito sforzo di innovazione della struttura produttiva e della società regionale che potesse garantire all’Umbria di essere più forte e competitiva di fronte a questo scenario. Il secondo punto era la consapevolezza che nel nuovo scenario non poteva essere sufficiente il vecchio blocco sociale che aveva sospinto la crescita dei decenni precedenti a sostenere questo straordinario e necessario sforzo di innovazione. La proposta era quella di guardare alla nuova articolazione sociale che quegli anni portavano con sé per costruire una nuova “costellazione democratica” di forze sociali, politiche e culturali capaci di rinnovare e ampliare il tradizionale blocco sociale (una discussione nella sinistra che ha creato conflitti, scissioni, ricerca e sperimentazioni fino … ad oggi, all’arrivo di Elly Schlein nel PD). La terza proposta era che oltre a difendere con l’innovazione la base industriale dell’Umbria e il welfare che si era costruito con ingegno e con fatica nei decenni precedenti, si guardasse anche a nuovi orizzonti dello sviluppo, all’ “Umbria come risorsa di sé stessa”, intesa come economia dell’ambiente, della cultura, del turismo, delle produzioni agricole di qualità e della enogastronomia, della informatizzazione e digitalizzazione, della conservazione e valorizzazione dei beni culturali, dei centri storici, delle realtà urbane che si erano venute costruendo nei decenni dello sviluppo (dalle scelte urbanistiche alla mobilità, alle relazioni sociali). Il tutto comportava una diversificazione e un ampliamento degli investimenti pubblici e privati, nuovi lavori, nuove professioni, nuova impresa, soprattutto nei settori creativi, della prossimità, della comunicazione, dell’accoglienza, della formazione, dell’ambiente.

Il primo capitolo di quel documento a base della Convenzione di Programma del gennaio 1985 aveva come titolo “Un Patto per lo Sviluppo”, ma presentava indirizzi e contenuti molto diversi da quanto sarebbe accaduto negli anni successivi, anni in cui qualcosa si è certo fatto, anche cose importanti, ma non sufficienti a garantire la competitività dell’Umbria. Queste non sono considerazioni personali, è tutto scritto, si può rintracciare negli atti della storia di partito e delle istituzioni, nella ricerca economica e sociale, purtroppo non sempre ben accolta. Tutto ciò è stato poco indagato perché vinse un’altra lettura della storia regionale, talora anche in contrasto con le dinamiche nazionali.

Successe che quel gruppo dirigente del PCI, l’intera Segreteria Regionale (di cui faceva parte lo stesso Agostini, insieme a me, al Segretario Carnieri e ad altri importanti dirigenti) dopo la Convenzione di Programma venne progressivamente smobilitato e disperso. Quel progetto di discussione, quella linea (come si diceva una volta) vennero sconfitte ed azzerate, ognuno prese la propria strada, ma quella sfida si fermò lì. Si affermò una linea diversa da quelle tesi ritenute soltanto visionarie, si affermò, come dice Carnieri nell’intervista alla rivista Diomede nel 2010, un’idea di partito/Stato garante degli equilibri politici e sociali di quegli anni, di una continuità pigra degli assetti politici e istituzionali, di un progressivo isterilimento delle dinamiche sociali, di un crescente consociativismo come indicato da Agostini e di una troppo scarsa capacità di innovazione istituzionale, sociale e produttiva. Mentre in Emilia Romagna e Toscana, ad esempio,  con i fondi dell’Unione Europea si costruirono un gran numero di centri per l’innovazione e il trasferimento tecnologico (a memoria credo 7 parchi scientifico-tecnologici in Toscana e più di 10 centri d’eccellenza tecnologico-scientifica  in Emilia Romagna) che sono progressivamente diventati l’architrave strutturale della competitività di quelle economie locali con grandi riflessi sul lavoro e sul sistema delle imprese, in Umbria è accaduto poco o niente di tutto questo, il sistema universitario ha toccato in quegli anni un livello molto basso della sua centenaria esistenza, il Patto per lo Sviluppo promosso dalla Presidente Lorenzetti è divenuto ben presto preda di quel consociativismo improduttivo di cui si è detto, il “policentrismo dell’Umbria” è divenuto sempre più il terreno di una conflittualità campanilistica a somma zero piuttosto che la spinta regionalistica innovativa basata sulla vitalità delle identità cittadine immaginata dal Senatore Raffaele Rossi. Per di più con la progressiva penalizzazione del nodo/motore del sistema regionale, il suo capoluogo, Perugia e con la progressiva deriva di Terni, città senza risposte. Persino la costruzione del PD si è tradotta per lo più in uno scontro tra ex comunisti ed ex democristiani (anche questa non è una valutazione personale, ma è la dichiarazione esplicita dei protagonisti dell’epoca) che ha contribuito ad isterilire la vita politica e istituzionale dell’Umbria. La verità è che la società regionale nel suo complesso e non solo la politica, non erano pronte per quel salto di qualità, direbbe Fabio Ciuffini, non è la prima volta nella loro lunga storia che Perugia e l’Umbria si siedono su sé stesse e sulle proprie pigrizie e conflitti (Prodigi a Perugia editrice Tozzuolo). Ma questo non scusa certo la politica che ha come missione principale e come parametro di successo (dall’antica Grecia) l’organizzazione e la promozione dell’innovazione e la capacità di distribuirne equamente alla società i benefici.

Questa discussione è importante non tanto per sapere chi aveva ragione e chi torto, ma perché siamo arrivati all’ultimo pericoloso atto di una discesa continua intrapresa dall’Umbria in questi decenni. Da quegli anni il PIL regionale non è più risalito al livello della media nazionale e i dati di oggi ci dicono che siamo l’ultima regione d’Italia nel percorso di riaggancio ai dati economici al pre-pandemia. I nostri dati strutturali sono ormai scesi, quasi stabilmente sotto l’Abruzzo. I governi di centro destra negli ultimi 15 anni, prima nelle città e poi alla Regione, hanno ulteriormente aggravato le condizioni dell’Umbria, come sottolinea Agostini, l’alternanza anziché proporre delle linee di cambiamento ha prodotto, per dirlo emblematicamente, il disastro sanitario, nulla in economia e Bandecchi a Terni come ciliegina sulla torta.

L’allarme nella società regionale è alto e i recenti dati delle elezioni europee e amministrative lo stanno a dimostrare. Deve poter crescere rapidamente una nuova consapevolezza dei problemi molto seri della regione. Se vogliamo garantire in futuro all’Umbria i livelli e gli stili di vita conquistati in passato e che ancora, in parte, stiamo ereditando, non possiamo permetterci nemmeno un passo indietro in più, un ulteriore grado di scivolamento.

Credo, a questo proposito, che sia illuminante e anche sconcertante ascoltare l’attualità degli interrogativi di Carnieri proposti ancora nell’intervista a Diomende sul destino della struttura produttiva regionale nel 2010.

“In passato sono arrivate in Umbria un fiume di provvidenze comunitarie che la Regione ha avuto la capacità di utilizzare mettendole tutte a profitto …. Adesso quelle provvidenze finiranno, ma ne verranno altre. La domanda che ci si pone è: come dobbiamo investirle? Dobbiamo darle a pioggia a tutte le imprese come si è fatto nel passato, oppure dobbiamo fare delle scelte ? Puntare cioè solo sulla parte innovativa dell’imprenditoria? Obiezione: e gli altri ? Che ne facciamo di tutte le altre imprese che non hanno fatto l’innovazione complessa? Puntiamo soltanto sul 17% delle aziende e le restanti le lasciamo annaspare ? E se chiudono ? …. Esprimersi con chiarezza su questi temi significa scoprirsi, rischiare, rompere con situazioni consolidate ….” A me non risulta che ci siano state risposte significative a queste domande, non risulta che si sia affermata una politica industriale leggibile e coerente per l’Umbria, a differenza di altre regioni del centro Italia, non risulta che si sia seguito con qualità e coerenza un disegno di diversificazione e articolazione dello sviluppo regionale e non risulta che si sia dato luogo ad attività di radicamento e implementazione dell’innovazione tecnologica adeguate al livello delle  esigenze della società regionale e del recupero/conquista della competitività della struttura produttiva e del sistema regionale. Questi problemi rimbalzano dall’85 al 2010   ai nostri giorni e non hanno avuto risposta concreta e credibile.

Si tratta di prendere con urgenza coscienza di questi problemi e di questa storia, senza anatemi e ponendo fine a lotte di potere che oggi sono prive di utilità e di motivazione.

Ricordo per questo anche io con piacere, come ha fatto Agostini nel suo lavoro, il titolo di uno dei libri di Wladimiro Boccali non rieletto Sindaco di Perugia nel 2014 …. “ma è tutta colpa di Boccali ?”

La politica dei progressisti, della sinistra e del centro sinistra deve rinnovarsi, non si tratta di sostituire senza sosta generazioni e gruppi dirigenti, ma di dare risposta a questi problemi. Si deve ri-trovare, ri-unire ri-innovare e rimettere in produzione un’intelligenza diffusa e dispersa dello schieramento progressista, della sinistra che ha ancora radici solide nella società regionale e delle forze democratiche moderate che non accettano più questa deriva. La misura del successo dei gruppi dirigenti progressisti sarà nella capacità di rispondere a questo compito.

Il risultato delle elezioni comunali a Perugia e l’elezione di Vittoria Ferdinandi hanno segnato una strada che ora va riempita di contenuti, di programmi forti e di un modo d’essere dello schieramento progressista molto diverso da quello del passato. Un’alleanza per lo sviluppo ampia, senza steccati, fatta di partiti, di movimenti civici, di associazioni, di forze culturali, di Sindaci, capace di trovare le proprie forme sul territorio e di riunirsi intorno ad alcuni grandi temi decisivi del futuro dell’Umbria.

Sbaglia, secondo me, Alberto Stramaccioni, quando rivendica aprioristicamente il ruolo del PD, che nessuno contesta, nella vittoria elettorale di Perugia …. “il PD non è un autonoleggio!” ha dichiarato recentemente al Corriere dell’Umbria … continua una strisciante polemica sui civici e il civismo nel PD e non solo. Ma a parte la valutazione del peso, importante, che ha avuto nel successo elettorale la figura civica della Ferdinandi (pur indicata da una coalizione di partiti) e a parte il dato di fatto che il peso delle liste civiche nel risultato del centro sinistra allargato al Comune di Perugia è oltre il 18%, va considerato definitivamente e senza ambiguità il progetto di come sia concretamente possibile cambiare un sistema politico locale che prima, per decenni è stato imperniato sull’alleanza PCI/PSI ed altre formule progressivamente derivate e che oggi deve trovare altri approdi. Il peso del civismo democratico e progressista a livello locale sarà determinante per molti anni, così come lo sarà il tema del dialogo con tutte le forze progressiste e con le forze democratiche moderate. Non è solo un tema locale, ma di caratura nazionale e internazionale, è il tema di come si ricostruisce il fronte progressista, la sua capacità di rappresentanza, la sua competitività nelle democrazie dentro e oltre la crisi che viviamo. Questo, del resto, è l’orizzonte nel quale si muove l’azione della Schlein che non è stata eletta per caso e che non per caso non aveva il sostegno della nomenclatura tradizionale. Penso e spero che come annunciato ci saranno novità anche nella riorganizzazione della forma partito PD. Ma tant’è, in Umbria è cominciato un percorso con i civici che ha registrato un disastro nel 2019, che ha ottenuto alcuni successi nelle città, che si è incagliato a Perugia nel voltafaccia di Fora, ma che alla fine è stato determinante con Vittoria Ferdinandi per conquistare Perugia e credo che potrà essere determinante anche per cercare di cambiare la guida dell’Umbria. A livello nazionale i partiti hanno e devono avere un’altra dimensione e funzione e non si può scambiare il locale con il nazionale e viceversa, ma non si può negare il ruolo positivo e funzionale alle esigenze di rappresentanza che oggi il civismo riesce a proporre nei territori. I gruppi dirigenti del PD e degli altri partiti progressisti devono affermarsi oggi nel confronto dei programmi, nella vicinanza propositiva ai problemi strutturali e di sistema che debbono essere affrontati con urgenza e con soluzioni innovative, debbono aggregare importanti forze culturali e sociali e offrire sedi di discussione, elaborazione e ricerca. La politica non deve ridursi, come è stato per lunghi anni, a lotte di ceto politico lontane dai problemi della gente e dei territori e questo vale anche per i giovani o meno giovani dirigenti che sono cresciuti o hanno operato respirando questa aria e questo clima. Il tema dei civici e delle rappresentanze civiche non può essere lasciato alla destra che si è giovata per molti anni di questa formula più diretta di dialogo con la cittadinanza su scala locale. Una volta tutto questo si sarebbe gramscianamente chiamato “costruzione dell’egemonia”, termine che ha subito troppi torti e che purtroppo spesso è stato utilizzato a sproposito, ma se si vuole guidare uno schieramento ampio politicamente ed elettoralmente competitivo la questione è pur sempre questa.

Ho cercato di leggere la traccia di Agostini apprezzandone il senso finale e apportando osservazioni e obiezioni la’ dove mi sembrava necessario. Ripeto, in sede storica sarebbe molto utile aprire finalmente una discussione su quanto accaduto durante gli ultimi 30/40 anni in Umbria, per trarne suggerimenti e insegnamenti, come si fa con la ricerca storica. Ma a me non interessa una discussione su chi ha o ha avuto ragione e chi torto, a me interessa riunire e ampliare quella grande energia che c’è in Umbria e che può fare la differenza nel dirigere nei prossimi anni le sorti dei nostri territori che vedo in serio pericolo. Se il messaggio di Agostini è questo, lo sposo in pieno.