di Sergio Buttiglieri
Altro implacabile riuscitissimo monologo di Ascanio Celestini quello che ha appena debuttato al Piccolo Teatro Strelher di Milano. Lui è da più di vent’anni una delle più preziose realtà del nostro più vitale Teatro di Ricerca. È un autore-attore che non si risparmia che va in scena un numero stratosferico di volte durante l’arco di un anno. Anche contemporaneamente con 4 spettacoli, uno più travolgente dell’altro.
Questa volta con “L’Asino e il Bue del Presepe di San Francesco nel parcheggio del Supermercato”; ha dissezionato efficacemente la figura di San Francesco svelandone le sovrastrutture che la nostra società gli ha costruito attorno. Lui, da antropologo prestato al teatro, lo ha immaginato ai nostri tempi, in un parcheggio di un supermercato, con una fauna di barboni pisciati addosso, tra i facchini africani che spostano pacchi in qualche grande magazzino della logistica e di zingari che, secondo i nostri pregiudizi, non sanno fare altro che fumare e rubare.
L’altra sera allo Strelher tutto esaurito, ci ha irretito in un magnifico vortice narrante, ricco di anafore e circolarità che, rielaborando la ricchezza espressiva ed evocativa della memoria orale, è riuscito a calamitare, stupendo ed emozionando, la nostra frammentata attenzione, viziata dalle continue intermittenze delle ossessioni del fare e del produrre che caratterizza il nostro tempo, compresa la figura di questo santo.
Lui Francesco, dopo una iniziale vita agiata viene scacciato dal padre benestante che non tollera i suoi atteggiamenti poco allineati al suo status, e quindi decide, ci racconta ironicamente Ascanio, di togliersi le scarpe Prada, i pantaloni rigorosamente firmati e le mutande di Fedez, e comincia a vivere nelle baracche. Francesco sa perfettamente che c’è chi ruba le mele e chi invece ruba i miliardi. Francesco vive in assoluta povertà inventando il presepe a Greccio ma nel tempo le istituzioni riescono a inquadrarlo come l’ennesimo santo da esporre. È pieno il mondo di pezzi di santi, del loro sangue, di chiodi della crocifissione, di pezzi di croce. Se mettessimo assieme tuti i pezzi di croce disseminati nel mondo attuale potremmo mettere insieme l’Empire State Building, ci ricorda Ascanio.
La scena è un unico tendone rosso centrale che ad un certo si apre e svela i dettagli codificati della vita di Francesco. Una sorta di manifesto omologato del santo. Ascanio ci racconta come Francesco decide di andare a Roma dal papa Innocenzo III con Chiara che si rasa i capelli e vive come i frati per servire gli umili. E nel percorso trova il lupo che diventa buono, e riesce a fare la predica agli uccelli e incontra i barboni nel piazzale del supermercato.
Francesco è povero per scelta. Il monologo si intesse di situazioni che tanto ci ricordano il recente riuscitissimo film “Io Comandante” di Garrone. Con i migranti, i trafficanti di vite umane, le violenze sulle donne. Ci ricorda i 100.000 migranti morti in mare senza nome del nostro tempo, mentre invece noi vivi dobbiamo ricordare i nomi di ciascuno dei morti. Mentre noi odiamo gli zingari, i cinesi, gli africani, imbottendoci di stereotipi, andiamo allegramente in tour alla basilica di Assisi.
Noi viviamo in un carcere di parole scritte ci ricorda Ascanio. Lui quando recita i suoi incredibili monologhi sembra apparentemente fermo, mentre c’è un grande ritmo nei suoi micro movimenti. Le sue pause danno subito il là ad un altro momento della narrazione, sono sempre condotte con studiato mestiere e senso dei tempi scenici. Altrimenti anche con questo suo ultimo monologo di 2 ore non potrebbe calamitare l’attenzione del pubblico.
Il suo modo di raccontare sembra un’unica immensa frase, senza punti a capo. Piena di digressioni, quasi fosse un insolito racconto alla Thomas Bernhard eccezionalmente rivolto all’infinito racconto orale della memoria. Tanti anni fa, penso più di 20, chiesi ad Ascanio cos’ė per te la memoria? Lui mi raccontò che un giornalista “mi voleva convincere che ci fosse la memoria divisa in due anche nella lotta partigiana. Io risposi che la memoria non era divisa in due, ma che, piuttosto, la memoria é divisa in tante persone quante hanno memoria”. E poi gli chiesi come giudicasse l’oralità televisiva che apparentemente racconta la realtà e l’informazione probabilmente nascondendola? E Ascanio mi disse: “Premetto che la televisione la guardo sempre più raramente. L’oralità televisiva non è che non sia oralità: è oralità che manca completamente di memoria e di prospettiva. È questo che la svuota completamente di senso. La televisione, a parte le insite e programmatiche manipolazioni, in quanto telecronaca degli avvenimenti, nel momento in cui succedono, diviene assolutamente senza memoria. Assistendo nello stesso contenitore alla fiction, alla pubblicità, alla cronaca, agli avvenimenti reali e a quelli finti entriamo in una spirale semantica per cui tutto diventa un’unica cosa: né vera né falsa ma televisione”.