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di Sud

Proviamo a immaginare la scena: siamo a Padova nel 1977, in un ufficio della CEDAM, una delle più importanti case editrici giuridiche italiane. È in corso la periodica riunione per la programmazione editoriale e sul tavolo c’è anche un romanzo. Normalmente proposte del genere a quel tavolo neppure arrivano; ma questa viene dai familiari di un grande giurista morto di recente, uno degli autori di punta della casa; e non si può respingere.
È questa, più o meno, la preistoria di uno dei più grandi romanzi italiani del secondo novecento: Il giorno del giudizio di Salvatore Satta. La CEDAM pubblica il libro in qualche centinaio di copie e per un paio d’anni tutto tace. Finché una copia non capita nelle mani di Roberto Calasso, direttore della emergente ma già prestigiosa Adelphi, che da ragazzino aveva conosciuto Satta come amico e collega del padre Francesco, anche lui giurista.
Calasso lo legge, più che altro per curiosità, e ne resta folgorato, tanto da decidere di ripubblicarlo; ed è subito un successo, con decine di ristampe e traduzioni. Il romanzo attirò anche grandi recensioni, come quella di George Steiner sul “New Yorker”, che accostò Satta a Tacito e Hobbes per la «marmorea ferocia» della sua opera su una Sardegna grigia e primitiva. Come nella scena delle donne coinvolte nella preparazione del pane Carasau.
Una doveva impastare, una tirare la sfoglia, una cuocere in forno «con le cocche del fazzoletto rialzate sulla testa, il viso illuminato nell’ombra», e un’altra ancora «seduta con le gambe in croce davanti a un panchetto, con un coltello la ritagliava lungo i bordi, e ne venivano fuori due ostie fumanti che pian piano s’irrigidivano, diventavano croccanti, e andavano a formare le alte pile che poi si sarebbero infilate nella credenza».