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A partire dal Cinquecento il potere al femminile mise radici nell’economia e nella cultura 

di Antonella Valoroso
Foto ©Fabrizio Troccoli

La storia delle donne umbre nell’età moderna rivela un intricato tessuto di relazioni sociali, influenze culturali e potere politico che ancora una volta sfida la tradizionale narrativa di passività femminile. Pur operando all’interno dei confini imposti dalla società del tempo, queste donne riuscirono infatti a costruire significativi spazi di autonomia e influenza, contribuendo in modo determinante allo sviluppo sociale e culturale di una regione che tra Cinque e Settecento, con la progressiva affermazione del potere papale, non vive certamente uno dei suoi periodi più floridi.

UMBRIA E DONNE/1 LA LUNGA STORIA DEL POTERE AL FEMMINILE INIZIA CON LE ETRUSCHE 

UMBRIA E DONNE/2 LA REGIONE A PIU’ ALTA DENSITA’ DI SANTE, COLTE E “IMPEGNATE”

UMBRIA E DONNE/3 I MILLE VOLTI DEL CULTO DELLA MATERNITà E DELLA MADONNA

UMBRIA E DONNE/4 INIZIò A TODI LA “CACCIA” ALLE STREGHE ITALIANA

L’epoca di transizione tra il Quattrocento e il Cinquecento è caratterizzata  dalla figura carismatica di Atalanta Baglioni (1450-1519), il cui palazzo divenne un vivace centro culturale, punto d’incontro per artisti, letterati e musicisti.

La sua vita fu segnata dalle tragiche “nozze rosse” del 14 luglio 1500, uno degli episodi più cruenti della storia della città: durante i festeggiamenti per le nozze di Astorre Baglioni con Lavinia Colonna la città divenne teatro di una feroce faida familiare che si concluse con l’assassinio di diversi membri della famiglia, tra cui il figlio di Atalanta, Federico Baglioni detto Grifonetto, uno dei principali responsabili della strage. I suoi ultimi istanti di vita sono stati immortalati nelle pagine del capolavoro di Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray: «Grifonetto Baglioni col suo giustacuore trapunto, il berretto gemmato e i ricci in forma di acanto, che uccise Astorre con la sposa e Simonetto col suo paggio, […] era di una tale bellezza che quando giacque morente nella piazza gialla di Perugia coloro che l’avevano odiato non potevano trattenere le lacrime e Atalanta, che l’aveva maledetto, lo benedisse».

Il dolore di Atalanta, secondo un racconto confermato anche da Vasari, si tradusse poi in mecenatismo artistico con la commissione a Raffaello della celebre «Deposizione Baglioni». Atalanta voleva che quest’opera fosse una sorta di riparazione, una preghiera rivolta a Dio affinché perdonasse i peccati di tutti i protagonisti del misfatto e soprattutto di suo figlio. Nel dipinto, considerato uno dei capolavori del periodo giovanile di Raffaello, la figura della Madonna che sorregge il corpo esanime del Cristo riflette il dolore di Atalanta per la perdita del figlio, creando un parallelo emotivo tra il dramma sacro e quello personale. 

L’opera venne collocata nella cappella della famiglia nella chiesa di San Francesco al Prato nel 1507 e molto probabilmente fu proprio questo dipinto a dare una svolta alla carriera del giovane Raffaello che l’anno dopo, all’età di appena 25 anni, venne chiamato a Roma alla corte di papa Giulio II per affrescare le stanze dei suoi nuovi appartamenti nel palazzo del Vaticano. 

Il celebre dipinto sarebbe tuttavia rimasto nella cappella Baglioni appena cento anni giacché nella notte tra il 17 e il 18 marzo 1608, con la servile complicità dei frati, venne trafugato su ordine del Cardinale Scipione Borghese che se ne era innamorato durante gli anni trascorsi come studente presso lo Studium perugino, dove si era addottorato in diritto. Il furto rischiò di provocare una rivolta cittadina ma nell’arco di pochi giorni la ruberia fu ufficialmente ricondotta a donazione spontanea e già il 9 Aprile il papa Paolo V, zio materno di Scipione, ratificò la ‘legittimità’ del passaggio dell’opera nelle mani del cardinale. Ancora oggi l’opera si trova a Roma, nella collezione della Galleria Borghese.

Altra figura di spicco del panorama culturale umbro tra Cinque e Seicento è quella di Francesca Turini Bufalini (1553-1641), poetessa vissuta a lungo a Città di Castello che sviluppò un notevole talento letterario, affrontando argomenti inediti per la scrittura femminile. 

Le sue Rime comprendono una serie di sonetti autenticamente autobiografici raccolti in un’apposita sezione denominata “Principio dello stato dell’autrice”. Si tratta di componimenti unici per il loro carattere introspettivo. Nessuna delle poetesse europee che l’avevano preceduta, né alcuna sua contemporanea, aveva infatti raccontato la propria vita con tanta precisione. In questi sonetti, Turini Bufalini presenta una descrizione dettagliata della sua esistenza, dall’infanzia alla vecchiaia e manifesta apertamente l’intero spettro delle sue emozioni. Racconta la propria nascita, seguita dalla morte del padre e della madre, la sua vita rustica e solitaria di orfana nel castello dello zio Pietro Carpegna, immerso nella natura selvaggia degli Appennini, dove trascorreva il tempo insieme alle pastorelle, cavalcava e andava a caccia nei boschi che circondavano il castello di Gattara. Raconta il matrimonio con cui, nel 1574, il suo destino si lega a quello del conte di San Giustino e colonnello pontificio Giulio Bufalini -che a settant’anni aveva avuto già due mogli e la sposò sperando così di riuscire avere finalmente un erede maschio- le gioie esuberanti della maternità, la triste vedovanza, l’amore per i tre figli e i nipoti, i conflitti con i figli ormai adulti e la tragica morte di uno di loro. Nella maggior parte dei sonetti domina un forte “io” narrante, ma spesso l’autrice si rivolge anche a sé stessa, in un intenso dialogo con il suo cuore e la sua anima. Fece parte dell’accademia Degli Accinti, Degli Agitati e anche di quella Degli Insensati, in cui gli associati erano di solito uomini, e scrisse un Commento del Canzoniere di Francesco Petrarca. 

Francesca Turini Bufalini non fu solo una raffinata poetessa ma anche Contessa reggente del feudo di San Giustino dal 1583 al 1594. Giulio Bufalini, evidentemente consapevole delle doti di amministratrice della terza moglie, lasciò difatti un testamento insolito per quei tempi nominandola unica esecutrice e amministratrice di tutti i beni Bufalini, nonché guardiana dei figli minorenni. Così Francesca, per un decennio circa, fu a capo della famiglia Bufalini, il che le causò nuovi problemi con le cinque figliastre e successivamente con i suoi due figli maschi -Giulio e Ottavio- diventati ormai adulti. 

Dopo non poche vicissitudini, trascorse gli ultimi vent’anni della sua vita nel palazzo di famiglia a Città di Castello, dedicandosi alla pubblicazione delle sue opere e alla composizione di un lungo poema in ottava rima, Il Florio, ispirato al Filocolo di Boccaccio, che non riuscì tuttavia a stampare prima della morte che la colse nel 1641, alla veneranda età di 88 anni. L’opera è stata pubblicata nel 2013.

Pur non essendo umbra di nascita, Lucia Tartaglini (1629-1690), conosciuta come Suor Lucia della Torre, fu una delle figure più significative della mistica e dell’assistenza sociale nella Perugia del Seicento. Nata a Cortona in una famiglia di antica nobiltà, crebbe in un ambiente caratterizzato dalla presenza di letterati, medici, artisti ed ecclesiastici. La sua infanzia fu segnata dalla perdita del padre, Francesco d’Agnolo, e da un’esperienza difficile in un convento domenicano, dal quale decise di allontanarsi per aderire al Terz’Ordine di San Francesco. Profondamente devota e determinata a seguire una vita spirituale, Lucia rifiutò costantemente le proposte di matrimonio e si dedicò a un’intensa attività caritativa. A Cortona accoglieva nella propria casa donne in difficoltà, insegnando loro la tessitura per garantirne l’autosufficienza economica. 

Nel 1670, le difficoltà finanziarie della famiglia, acuite dalla bancarotta del fratello Bernardo, costrinsero Lucia, sua madre e la sorella Giulia a lasciare Cortona e trasferirsi a Perugia. Qui trovò sostegno nella nobildonna Loreta Battisti e nella francescana Suor Margherita della Croce, oltre che in Padre Tommaso Guzzoni degli Oratoriani, che la aiutò a ottenere una casa dai signori Graziani. In questa dimora Suor Lucia organizzò un laboratorio di filatura e si dedicò alla ceroplastica, un’arte appresa probabilmente dal padre, realizzando piccoli crocifissi e busti di Cristo su commissione.

Dopo la morte della madre e della sorella si impegnò nella fondazione di un Conservatorio, ovvero un collegio in cui accogliere donne sole e fanciulle abbandonate. Nel 1680, grazie al contributo della contessa Caterina Della Penna Oddi, divenne proprietaria della casa della Torre degli Sciri (dalla quale prese il soprannome Suor Lucia della Torre), in Porta Santa Susanna, dove proseguì la sua opera assistenziale e fu madre superiora fino alla morte. 

Tra le sue creazioni artistiche più celebri si annovera un Ecce Homo in cera, considerato miracoloso dai perugini. Oltre alla sua attività di scultrice e assistente delle donne bisognose, Lucia Tartaglini si distinse come autrice di testi mistici. Scrisse diverse opere tra cui «Lumi ricevuti per anime», «L’Arca dell’Anima», «Il Calvario» e «Dialogo ò vero contrasto che fa l’Anima e il Cuore», che la collocano tra le più rilevanti figure spirituali del Seicento. La sua produzione letteraria e la sua intensa vita religiosa ci restituiscono il profilo di una donna poliedrica, carismatica e colta, che ha lasciato un’impronta significativa nella Perugia del XVII secolo.

Non solo a Perugia ma in molti centri urbani dell’Umbria fra Sette e Ottocento sorgono numerosi istituti femminili riconducibili, come ha acutamente osservato Francesca Guiducci, al «fenomeno che vede la trasformazione, il passaggio dalle madri spirituali alle madri intellettuali che caratterizza la sfera pubblica specificatamente femminile di questo periodo». 

La necessità di «arginare la devianza» e di «custodire la virtu» diventava così una giustificazione sufficiente per promuovere l’istruzione delle donne, un processo che avrebbe dato i suoi frutti più maturi nel secolo successivo.

Intanto, ad Assisi, già nel 1794, veniva stampato il pamphlet filosofico «Breve difesa dei diritti delle donne» in cui Rosa Califronia, contessa romana, con impeccabili argomentazioni difendeva le donne dalle più gravi calunnie rivolte nei loro confronti e concludeva il suo agile volumetto con un appello ai genitori affinché favorissero l’istruzione della figlie. Leggere per credere: 

«Dai genitori adunque si applichino agli studj quelle fanciulle, che il possono; ed abbiano fine le accuse de’ maschj contro le femine. 

Odiose lingue il mal dir vostro

Con vostra eterna infamia si sommerga. 

Se saranno alle donne concessi i colti studi, sono io ben certa, che 

Le loro lodi appariranno in guisa, 

Che di gran lunga avvanzeran Marfisa».