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Foto di Michela Simoncini da Flickr

di Sud

«Io non vo’ già presentar nelle mie carte la poesia popolare, ma i popolari discorsi svolti nella mia poesia». Questo si proponeva di fare Giuseppe Gioachino Belli nei suoi Sonetti. Giorgio Vigolo, uno dei suoi migliori interpreti, poeta anche lui, oggi quasi dimenticato, notava come la materialità dei ritratti del Belli, capace di destare nel lettore, talvolta nello stesso sonetto, il riso e la pietà, assume in altri casi una «indifferenza metafisica».
Tranne che nei quadretti dolorosi delle cene dei poverelli, dove l’indifferenza viene meno e scivola nel patetico, il realismo “metafisico” è tipico dei sonetti mangerecci. Descrizioni fantastiche e stupefatte di mercati e pizzicherie, di cucine papali e di sontuose tavolate. In uno di questi sonetti mangerecci troviamo il topos universale e attualissimo (si pensi a Tripadvisor) della “recensione” di un’osteria. Recensione ovviamente negativa. «Vino asciutto» (secco e aspro); «ppagnottoni, neri arifatti de scent’anni e un giorno»; la lasagna («sfojja») è imbottita solo di rigaglie e pecorino («ccascio tosto»); la carne del lesso è di scarto («de mascello»); l’arrosto d’abbacchio è misero («un quarto»), e per dolce soltanto «’na mezza grostata». «Li minenti» (i popolani arricchiti cui è intitolato il sonetto) si aspettavano ben altro: «un frittarello, un frutto, o un piattino ppiú semprice e
ccomposto!».
Ad esempio un piattino come quello che era stato servito a «cert’antra ggente che ce stiede accosto»: un grande classico della tavola romana, risalente addirittura ai tempi della repubblica; un magico equilibrio tra opposti esaltato dai nutrizionisti; uno di quei «grandi binomi internazionali, di fronte ai quali tutti c’inchiniamo, senza tentare d’indagarne il mistero», come ci ricorda Achille Campanile. Nientemeno che «fichi e presciutto».