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di Sud

La più bella lettera della letteratura italiana è quella che Machiavelli scrisse a Francesco Vettori il 10 dicembre 1513. I Medici sono rientrati a Firenze con le armi un anno prima, e Machiavelli, segretario della Repubblica popolare, passa il più brutto inverno della sua vita. Viene subito rimosso dall’incarico, poi arrestato e torturato, per essere stato coinvolto senza colpa in una congiura. In primavera però le cose sembrano cambiare.
Giovanni de’ Medici è diventato papa Leone X e i signori fiorentini governano così Firenze e Roma. Machiavelli gode dell’amnistia e può ritirarsi in esilio nella sua casa di campagna. E poi c’è Francesco Vettori, suo vecchio amico, che è ambasciatore di Firenze a Roma e forse può aiutarlo a riavere un incarico, anche se fosse quello di «voltolare un sasso». Per ora niente da fare, ma intanto Machiavelli scrive.
Parla all’amico di politica, di come passa le giornate e di come alla sera, dismessa «la veste cotidiana», conversi con gli «antiqui huomini», annotando tutto in un «ghiribizzo» De principatibus. La lettera è tutta da leggere, con la sua «mistione di felicità e infelicità, di sogno e di vita, di viltà e di grandezza» (come ha scritto Roberto Ridolfi, il suo più grande biografo). Ma qui ci interessa la prima parte, con la descrizione delle sue giornate «in villa».
Taglio del bosco, qualche lettura («Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili»), e poi all’osteria, con «un beccaio, un mugnaio e due fornaciai», a giocare «a cricca e a trich-trach». Ma prima ci sono i tordi. Machiavelli li cattura con la pania, «el meno dua, el più sei». E qualcuno lo regala agli amici, oppure, accompagnati da un sonetto, ai signori Medici, per ingraziarseli.
Oggi questo tipo di caccia è giustamente vietato, ma a molti piace ancora mangiare i tordi. Magari allo spiedo, con la ricetta lasciataci da un contemporaneo di Machiavelli: Leonardo da Vinci, che in una terzina canzona così i poeti e gli intellettuali: “Se Petrarca amò si forte il lauro, fu perché li è bon fra la salsiccia e il tordo. Io non posso di lor giance far tesauro».