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di Gabriella Mecucci

I numeri parlano chiaro: Marco Pierini ha governato con successo la Galleria Nazionale dell’Umbria. È partito con 48mila visitatori ed è arrivato prima del Covid a 97mila. Dopo il biennio nero della pandemia ha ripreso ad aumentare sino a raggiungere nei primi 10 mesi del 2023 il tetto di 145mila. Ed è facile prevedere che alla fine dell’anno il risultato sarà fra i 160 e il 170mila. Presenze da record che triplicano quelle iniziali. Ha modernizzato profondamente il museo dal punto di vista tecnologico e impiantistico. Ha realizzato un nuovo allestimento e ha promosso una miriade di iniziative rafforzando il rapporto fra la Galleria e la città. A fine mandato è candidato alla direzione dei quattro musei italiani più importanti: Uffizi, Capodimonte, Brera e Gnam. Ma del suo futuro preferisce non parlare se non altro per scaramanzia. Lo definisce “incerto”, ma non aggiunge altro. Preferisce riflettere sul bilancio dei suoi otto anni nel ruolo di direttore della Galleria Nazionale e del Polo Museale dell’Umbria.
Qual è l’obiettivo più importante che ha raggiunto? È soddisfatto di quanto è riuscito a fare?
“Il bilancio dal mio punto di vista è positivo. Ma non posso essere solo io a giudicare. C’è sempre qualcosa che può essere fatta meglio. La cosa di cui vado più fiero è che in otto anni si è formata in Galleria una squadra di persone fantastiche: capaci e entusiaste. E sono orgoglioso che una funzionaria formatasi nel museo sia ora fra le candidate a dirigerlo. Parallelamente a questo clima interno si è sviluppato un rapporto molto positivo con la città, con la regione, con le istituzioni e più in generale con l’intero sistema della produzione e della fruizione artistica”.
Come commenta i dati dei visitatori in straordinaria crescita?
“Nei primi dieci mesi del 2023 siamo arrivati a 145mila visitatori. Una quota destinata a salire quando si aggiungeranno i numeri di novembre e di dicembre. Ma questi debbono essere guardati con prudenza perchè pesa non poco la mostra di Perugino che ha portato in Galleria una media di mille e cinquanta persone al giorno. Eventi del genere però non si verificano spesso. Quando sono arrivato c’erano 48mila visitatori e già prima del Covid avevamo raggiunto i 97mila. Nell’arco di cinque anni avevamo raddoppiato e questo mi sembra un solido risultato, non legato alle scadenze difficilmente ripetibili”.
Aldilà dei numeri, che giudizio dà della mostra di Perugino: del suo valore scientifico?
“L’aspetto più importante è proprio quello che riguarda la ricerca. Il successo numerico si consuma nel breve periodo, mentre il ruolo in cui è stato rimesso Perugino e le nuove attribuzioni restano. Le novità che sono emerse – alle quali hanno partecipato valenti studiosi – nascono dal lavoro di approfondimento dei due curatori della mostra – Veruska Picchiarelli e me stesso – che non sono accademici. A dimostrazione che il museo non è solo valorizzazione ma è anche luogo di studio e di ricerca. Sono orgoglioso di poter rivendicare questo ruolo. Fra le novità più importanti c’è stato l’aver affrontando il tema del ritratto con una nuova attribuzione a Perugino e riconducendo a lui un’opera della Borghese. Abbiamo poi valorizzato il Pietro Vannucci degli anni Ottanta e Novanta del Quattrocento quando per un venticinquennio è stato il ‘meglio maestro d’Italia’. Questo elemento non era stato sottolineato a sufficienza dalla mostra del 2004 perché furono pochi i prestiti che riguardavano quel periodo. Abbiamo infine ridefinito in maniera più precisa gli esordi di Pietro Vannucci con riferimento agli anni di lavoro nella bottega del Verrocchio. Nel complesso si può ben dire che -insieme a tanti valenti studiosi – siamo riusciti a rimettere Perugino nel posto che si merita: un grande fra i grandi. E di questo per molto tempo ce ne eravamo dimenticati”.
Che Galleria ha trovato quando è arrivato a Perugia? E ora come la lascia?
“La Galleria era in buone condizioni, ma non ottime. L’allestimento aveva ancora una sua validità mentre l’impiantistica era mal ridotta. Ora l’abbiamo ben sistemata. Abbiamo introdotto soluzioni tecniche che una ventina d’anni fa non esistevano. Lascio dunque un museo molto più moderno di quello che ho trovato. Fra una ventina d’anni ciò che abbiamo fatto sarà di nuovo superato e ad altri toccherà di modificarlo di nuovo. Questo è il destino dei musei che sono corpi vivi e che hanno quindi bisogno di rinnovarsi, altrimenti diventano ingessati”.
Qual è il dipinto della Galleria che ama di più e che vorrebbe portare con sé nella sua futura destinazione?
“Amo molto la Croce del Maestro di San Francesco. È un’opera magnifica, alta cinque metri, con una qualità della pittura straordinaria e con un profondo contenuto religioso. Ha una grande forza empatica e rappresenta una delle prime celebrazioni di Francesco. Mi piacerebbe portarla con me, ma è impossibile. Sta bene dove sta, nella prima sala della Galleria Nazionale dell’Umbria”.
Che rapporto ha stabilito con Perugia? Che cosa l’ha affascinato e con quale radice cuilturale ha dialogato più volentieri?
“Conoscevo abbastanza bene la città prima di venire a lavorarci. In questi otto anni ho avuto però la possibilità di comprenderla meglio. Ho scoperto il profondo legame che Perugia ha col periodo risorgimentale. Ho toccato con mano il rapporto molto stretto che la lega alla Galleria: un museo che è nato civico. Non è infatti una collezione creata da una grande famiglia e poi divenuta pubblica, come fu per gli Uffizi che erano dei Medici. Ho poi approfondito il ruolo di figure a me già note, ma di cui ho capito meglio la forza e lo spessore. Penso ad esempio ad Aldo Capitini sul quale ho pubblicato, insieme a Laffranco Binni, un libro biografico”.
Perugia è spesso giudicata una città chiusa, fredda, soprattutto con chi viene da fuori. Lei che impressione ne ha ricevuto?
“No, chiusa no. Casomai riservata, forse caratterizzata da una certa ritrosia. Io comunque l’ho trovata accogliente. Ho sperimentato una grande possibilità di confronto con le istituzioni con le varie associazioni, con le persone singole. Mi sono trovato decisamente bene. In questi otto anni ho collaborato con tanti soggetti diversi e insieme abbiamo portato avanti una miriade di iniziative che hanno favorito il legame fra la Galleria, I perugini, gli umbri e i turisti”.
C’è qualcuno di questi soggetti con il quale ha stabilito un rapporto speciale?
“Se dovessi dirli tutti, l’elenco sarebbe troppo lungo. Voglio fare un solo nome perché è scomparso e perché non siamo riusciti a portare a termine il lavoro che avevamo progettato. Si tratta di Albderto Maria Sartore. Dovevamo scrivere un libro a quattro mani su alcune opere della Galleria sulle quali aveva trovato documenti inediti”.
Abbiamo parlato del suo rapporto con Perugia, ma lei è stato anche il direttore di tutto il polo museale della regione. Di questa attività quale bilancio fa?
“Ho più di un rimpianto. Purtroppo non ho approfondito la conoscenza di alcune importanti e affascinanti realtà. Ci sono città di cui già sapevo, penso soprattutto a Orvieto che avevo frequentato a lungo quando studiavo Simone Martini. Sono riuscito poi a stabilire un buon rapporto anche con Spoleto. Ci sono luoghi però altrettanto interessanti che ho appena assaggiato. Tutti I musei comunque sono diretti molto bene, da funzionari eccellenti”.
Quale suggerimento darebbe a chi verrà dopo di lei?
“In Galleria non c’è più niente di strutturale da fare: l’allestimento, gli impianti, l’organico, lo staff sono a posto. Consiglierei al mio successore di concentrarsi sulla ricerca. Su mostre che rappresentino una novità dal punto di vista scientifico. Penso ad esempio ad un approfondimento sul Cinquecento perugino. Al mio successore direi: la macchina ormai è a posto, io ho cominciato a farla correre, a te lanciarla a tutta velocità come fosse una Ferrari”.