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Foto: Dieter Wagner (cc-by-sa)

di Sud

La conoscenza delle piante spontanee commestibili dovrebbe essere uno dei punti salienti nel curriculum di un cuoco. Tra quelle più comuni nei nostri prati, specialmente in quelli un po’ sassosi, o ai margini delle strade di campagna, c’è l’eringio. È una pianta simile al cardo, perenne, spinosa, non più alta di un metro, con dei bei fiori estivi, bluastri e a forma di stella. Solo i botanici però, e forse qualche appassionato, lo conoscono con quel nome. La straordinaria varietà linguistica dell’Italia offre per l’eringio un centinaio di varianti: cardo o cardone (stellato, a cento capi, solitario, di vigna, degli agnelli); pane (o formaggio, o insalata) d’asino; brustolone, carciofino, erba da colica, bottone da camice, spinone. La variante toscana, entrata nei vocabolari d’italiano, è “calcatreppola” (o “calcatreppolo”). Tra le attestazioni letterarie del termine ce n’è una di Luigi Pulci veramente gustosa. Pulci è noto soprattutto per il Morgante, magnifica cerniera quattrocentesca tra la poesia comico-realistica medievale e il poema epico rinascimentale. Ma il bizzarro poeta fiorentino ha lasciato anche una vasta e poliedrica produzione minore, entro la quale spiccano i sonetti contro Matteo Franco, giovane prete, arrampicatore sociale, rivale di Pulci nell’accattivarsi le grazie di Lorenzo il Magnifico.
In uno di questi sonetti, in rima con “ti colleppoli” (ti gongoli), “lo haver de’ Peppoli” (i possedimenti della nobile famiglia dei Pepoli) e i “saéppoli” (una specie di fionde), troviamo i “calcatreppoli”, che Pulci propone “in conserva”. In effetti i germogli dell’eringio si conservano sottaceto come i cetriolini. Se molto giovani possono anche essere mangiati crudi, in insalata, o stufati. Le radici invece vanno lessate a lungo e sono ottime candite.