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di Giulio Massa

Va visto e rivisto, soprattutto ascoltato, quel breve video ormai virale. L’episodio è noto. Il ministro degli esteri russo Lavrov è sul palco del Rasina Dialogue, una conferenza multilaterale organizzata a Nuova Delhi da un centro studi indiano ed uno dei pochi appuntamenti internazionali ai quali vengono ancora invitati esponenti russi. Lavrov parla della guerra in corso, la descrive come una «guerra che stiamo cercando di fermare e che è stata lanciata contro di noi usando il popolo ucraino» ed il pubblico, una platea cosmopolita prevalentemente composta di studiosi, diplomatici e top manager, esplode in una fragorosa risata.
Cosa impressiona di più di quegli istanti? Si potrebbe, ovviamente, infierire sulla parabola di Lavrov, già diplomatico brillante, sottile e sornione, ridottosi ora a megafono di una propaganda tragicamente imbarazzante. Ma davvero rivelatore è il tono della risata del pubblico: non è una risata sarcastica, amara, è una risata scoppiettante, la risata di gusto che scaturisce, per dirla con Pirandello, dall’ “avvertimento del contrario”, dall’effetto comico prodotto dal contrasto tra ciò che si vede o si sente e la realtà.
Si potrebbe chiuderla qui, con l’ennesima riconferma, a spese di Lavrov e delle sue riserve di prestigio personale ormai ridotte al lumicino, del fatto che la comicità involontaria è spesso quella di più sicuro effetto.
Alle nostre latitudini, tuttavia, guardando il fuori programma di Nuova Delhi, viene spontaneo porsi qualche interrogativo sulla realtà che ci circonda. Se si ride di Lavrov, della propaganda putiniana che fa a pugni con la realtà, quanto può risultare ridicola in giro per il mondo la bolla mediatica italica nella quale è prevalentemente ( per fortuna non esclusivamente) immersa la narrazione della guerra d’invasione russa, narrazione che spesso tanto da vicino ricalca quella propaganda?
E‘la bolla mediatica, per intenderci, dentro la quale un anno fa, mentre oltre centomila truppe russe erano ammassate in stato combat ready sul confine ucraino, riveriti guru di geopolitica sfottevano le previsioni di invasione formulate dagli USA, in un antipasto di quell’orgia di antiamericanismo che si sarebbe poi forsennatamente celebrata nei dodici mesi a venire. “Isteria dell’intelligence americana che non ne ha azzeccata una, del resto non è il loro mestiere”, liquidava con saccenza perfino indulgente il sempre assertivo Dario Fabbri. Salvo smentirsi un secondo dopo per dire che l’isteria era in realtà un messaggio cifrato (evidentemente comprensibile solo a pochi iniziati e lui modestamente lo nacque) con il quale gli americani facevano sapere a Putin che per l’Ucraina non avrebbero mosso un dito, Kyiv non era nella loro sfera di interessi e quindi si poteva trattare (sic!). E’la bolla in cui il suo maestro Caracciolo, a pochissimi giorni dall’invasione, consegnava al Riformista un grido di allarme planetario:” abbiamo un problema che si chiama America. Il paese guida dell’Occidente ha fatto una figura barbina, per usare un eufemismo”. Tutto ciò perché gli americani avevano inizialmente rivelato che l’invasione sarebbe avvenuta il 16 febbraio, mentre l’oracolo della gepolitica for dummies già sapeva che non si sarebbe mai verificata in quanto Putin – maestro di strategia per il quale il Nostro trasuda devota ammirazione pur fingendo mellifluamente di stare nel campo occidentale – aveva già raggiunto i suoi obiettivi (si rilassassero, dunque, gli ucraini e smettessero di guardare la CNN).
E’la stessa bolla in cui, nella fatidica notte del 24 febbraio (gli americani azzeccarono alla fine pure l’ora precisa), il canale all news della nostra tv pubblica ingaggiò, per alcune ore, un grossolano corpo a corpo con la realtà, ostinandosi a parlare di invasione limitata al Donbas e così già tradendo la tartufesca idea che quello fosse un sopruso tutto sommato tollerabile.
Le previsioni, certo, si possono più che legittimamente sbagliare, ma la nostra bolla era pronta a prendersi la rivincita sul tema delle cause e responsabilità di quella guerra che si era ostinata a non voler veder arrivare.
Così è scattata l’ora del circo Barnum dei talk-show: fuori i virologi (era ora), dentro il Jurassic park di veterocomunisti che non hanno mai digerito la sconfitta nella Guerra Fredda (amano dire che “si è conclusa”, vai a sapere come), destra reazionaria che ammira in Putin l’uomo forte opposto alla “depravazione dell’Occidente” , cattolici pacifisti e terzomondisti ringalluzziti da un papato quantomeno estraneo (eufemismo) all’Occidente, conservatori iper realisti che usano ancora, forse per sentirsi giovani, concetti démodé del genere “stati cuscinetto”. Ne è risultato il prorompere di un sentimento carsico di ostilità all’Occidente, al suo modello economico e relativo way of life. Il tutto, ovviamente, focalizzato contro gli USA, epitome a stelle e strisce di tutti questi mali, e con corollario finale di spiegazioni del conflitto, dall’”abbaiare della Nato” alla “guerra per procura”, perfettamente coerenti con l’involontaria gag di Lavrov.
E la storia? Dal Memorandum di Budapest (con il quale la Russia a dicembre ‘94 si impegnava formalmente a riconoscere e garantire l’inviolabilità dei confini ucraini in cambio della consegna delle 4.000 testate nucleari presenti in Ucraina) al Nato – Russia Founding Act (firmato a Parigi a maggio ’97 e con il quale Mosca accettava l’espansione ad est dell’alleanza atlantica)? Non pervenuta, come non pervenuto il fatto che, in tutta l’area degli ex paesi satelliti dell’URSS – nella zona cioè in cui nostri comici-editorialisti si divertono a piazzare sulle loro mappe i carri armati in miniatura che “abbaiano” alla Russia – le uniche testate nucleari sono russe e stanno a Kaliningrad (meno di 300 km dalla capitale di un paese Nato qual è la Lituania).
Per carità, quelli della bolla hanno un prepotente afflato umanitario e non si insinui che ad essi non stanno a cuore pure gli ucraini. Tanto che, tra i consigli offerti loro, spicca per oscenità il cartello comparso durante la marcia Perugia- Assisi: “meglio la resa della difesa”.
Insomma, nessuno più di noi può essere comprensivo con Lavrov. Il ministro avrà scambiato la platea indiana per uno studio televisivo italiano. Come quello, ad esempio, che lo ospitò, un mese dopo la scoperta del massacro di Bucha, per tenere un comizio infarcito di fake news e privo di contraddittorio. Il tutto si concluse con inquietanti auguri di “buon lavoro” a Lavrov. Poi a Mediaset scoprirono che Lavrov, nel diffondere il verbo putiniano, era un dilettante in confronto al loro editore e non lo chiamarono più.