di Ida Meneghello
Se un regista israeliano decide, ed è una cosa mai vista, di lavorare insieme a una collega iraniana scappata in Francia per evitare la lapidazione, il risultato non può essere semplicemente un film magnifico, il risultato è un miracolo.
E come assistessi a un miracolo ho guardato attonita il film di Guy Nattiv e Zahra Amir Ebrahimi “Tatami” che ha costretto il pubblico di Venezia80 ad alzarsi in piedi.
È una metafora potente questa pellicola girata in un pastoso bianco/nero che enfatizza ogni gesto e ogni sguardo e ambientata nella terra di confine che è la Georgia: è certamente la metafora della lotta di tutte le donne iraniane per la libertà contro il regime teocratico degli ayatollah, ma è anche la metafora del mondo in cui viviamo tutte e tutti, un mondo che dal 24 febbraio 2022 e dal 7 ottobre 2023 ci chiede di arrenderci all’idea che la guerra sia il futuro inevitabile degli anni che ci restano.
Questa metafora si materializza nei corpi, nella forza e nella rabbia di due donne che si trovano a Tbilisi per i mondiali di judo: la capitana della nazionale iraniana Leila Hosseini (la straordinaria Arienne Mandi) e la sua allenatrice Maryam (Zahra Amir Ebrahimi, qui regista e protagonista). Contro di loro scendono in campo gli ayatollah e la stessa guida spirituale suprema per fermare Leila ad ogni costo, perché sul tatami, il tappeto imbottito dove si disputano gli incontri di judo, non arrivi a scontrarsi con l’atleta israeliana, l’intoccabile, il demonio. Pur di costringerla a ritirarsi, gli ayatollah rapiscono i suoi genitori a Teheran, il marito e il suo bambino devono fuggire per non essere arrestati, forse uccisi.
Ma lei non si ferma, urla tutta la sua rabbia sfondando con la fronte uno specchio, aggredisce Maryam che cerca di convincerla a fare come già fece lei, un finto incidente in cambio del ritiro dalle gare e la nomina a coach della nazionale. E quando nell’ultimo combattimento non riesce a respirare, Leila si strappa l’hijab che il regime impone alle atlete, quel gesto che per tutte le donne iraniane è diventato un simbolo dopo la morte di Mahsa Amini.
I due artisti che firmano questa pellicola non hanno nomi qualsiasi: lui ha vinto l’Oscar nel 2019 con il corto “Skin”, lei la Palma di miglior attrice a Cannes 2022 con “Holy Spider”.
E alla fine sul tatami ci finiamo noi col nodo in gola, schienati da due registi capaci di girare un film in 27 giorni e che infondo sono più forti di Bibi Netanyahu e Ali Khamenei.