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di Franco Raimondo Barbabella

Eccoci di nuovo, è ripresa alla grande, per iniziativa della presidente Meloni, la discussione sulla riforma istituzionale. Questa volta in senso presidenziale. Colpiscono subito diversi aspetti, del modo e dei contenuti. Anzitutto vale la domanda, che qualcuno si è posto senza troppi complimenti: “Ma a che serve rafforzare l’Esecutivo, visto che mai come ora è reso forte in primo luogo dall’indebolimento del Parlamento, a tal punto che le leggi di fatto le fa lo stesso Esecutivo e il Parlamento approva in modo sostanzialmente ancillare?”.
A proposito del ruolo dell’Esecutivo c’è però anche dell’altro. Piero Calamandrei diceva che in materia di riforme istituzionali l’Esecutivo deve fare un passo indietro, perché questa è cosa che spetta al Parlamento. E invece ecco che è proprio l’Esecutivo che prende l’iniziativa, conduce i colloqui, indica temi, modalità e tempi. E tutti dietro, come se fosse questa per le riforme istituzionali la via della normalità. Il presidenzialismo è nel programma del partito e della maggioranza che ha vinto? Bene, prendano e conducano l’iniziativa il partito e la maggioranza che esprimono il Governo, non il Governo stesso, che non è solo il Governo di quel partito e di quella maggioranza ma del Paese.
C’è un altro aspetto preliminare che colpisce. Se si ascoltano le registrazioni dei convegni del 1995 sulla stessa materia (un altro momento del lungo ricorrente dibattito pubblico sulle riforme istituzionali) ci si accorge che le questioni sono ancora le stesse: ma è proprio necessario modificare la Costituzione?; se si, tutta o solo la seconda parte?; se si, a maggioranza politica o a maggioranza la più larga? comunque, con quale procedura?
In ogni caso mi pare che al momento attuale al centro non ci siano due questioni fondamentali che si possono presentare sotto forma di domanda, una di sostanza e l’altra di metodo, che poi è anch’essa di sostanza. La questione di sostanza: il Paese non funziona perché ci sono colli di bottiglia dappertutto; ma non funziona solo dall’alto e le strozzature si risolvono con l’elezione diretta del vertice? La questione di metodo, che è anch’essa di sostanza: il distacco delle élites dal popolo si dice che sia all’origine del distacco del popolo dalla politica e dalle istituzioni e che questo renda debole ed esposta la democrazia; ma il problema si risolve con soluzioni ottenute con pure operazioni di vertice nelle stanze del potere e con il popolo informato con lo spettacolo massmediatico?
Qui sta il punto. Leggendo le cronache di questi giorni, in particolare della giornata delle consultazioni di Meloni con le delegazioni dei partiti, viene da pensare che in fondo si stia ripetendo un gioco già visto. In sostanza un gioco delle parti, che difficilmente avrà sia come obiettivo che come risultato le riforme che servono a far funzionare meglio il Paese, a renderlo una democrazia più moderna e più solida, in cui il cittadino possa percepire di avere un ruolo da esercitare, per cui valga anche la pena di impegnarsi e partecipare.
La storia non incoraggia. Tutti i tentativi di riforma istituzionale, con modifica costituzionale o con legge ordinaria, o sono falliti o si sono ridotti a semidisastri e ad un indebolimento della democrazia e della fiducia nelle istituzioni. Che cosa è stata se non un clamoroso fallimento la riforma del Titolo V° del 2001? Di fatto ne è derivato un regionalismo che trasforma lo stato in una costellazione di piccole repubbliche inefficienti che oggi con l’autonomia differenziata tentano perfino di ibernarsi. Che cosa è stata la riforma Del Rio delle Province con legge 56/2014 se non una brutta pagina di svilimento istituzionale con enti mantenuti in piedi senza vere funzioni di governo, senza risorse, senza classe dirigente autonoma? Oggi regioni e enti locali funzionano peggio.
L’unica riforma costituzionale che è andata in porto è stata quella grillina della riduzione del numero dei parlamentari, un attacco vero al cuore della democrazia parlamentare, un successo del populismo ottenuto sull’onda di una sistematica denigrazione del sistema democratico e con la fellonía degli alleati di due diverse maggioranze, un disastro. Oggi il Parlamento funziona peggio e, come detto, ha un ruolo subalterno anche nella sua funzione precipua, quella di fare le leggi.
Allora, visti anche i precedenti, conviene essere chiari sui criteri di partenza. Primo: di riforme costituzionali si può parlare e le riforme si possono fare senza che ci sia bisogno di gridare all’attacco fascista alla democrazia; non solo si può, ma si deve ritenere migliorabile anche la Costituzione più bella del mondo. Secondo: però si deve fare non solo non ripetendo gli errori del passato ma ponendovi rimedio. Terzo: per come si è arrivati all’oggi in decenni di cieco conservatorismo e di maldestri o strumentali tentativi di cambiamento, e per l’intrico di questioni istituzionali che si sono affastellate, la riforma non può che essere di sistema.
Non è questione o comunque non è solo questione, come dice Cerasa, di “trovare soluzioni per risolvere un problema reale del nostro paese: la presenza di governi deboli dotati di poteri fragili”. Né è tantomeno questione di non accontentarsi più di quella che Giuliano Ferrara ha chiamato “stabilità trasformista”, che da decenni normalizza tutto, tutto fagocita e tutto digerisce, ma rende anche tutto incerto, precario, faticoso e improbabile. È questione di dare al Paese istituzioni adeguate ai tempi, che richiedono sì capacità decisionale e rispondenza tra decisione ed esecuzione ma anche, e contestualmente, partecipazione consapevole e responsabilità del cittadino, dunque maggiore e più forte democrazia. Richiedono una rete istituzionale armonica e partecipata.
In altri termini la questione riguarda il sistema Paese. Perciò conviene partire non dal vertice ma dalla base. Conviene rovesciare la piramide. Se, com’è evidente, nessuna riforma migliorerà il Paese in mancanza di un coinvolgimento dei cittadini nel processo di riforma, allora bisogna occuparsi del funzionamento di comuni, province e regioni, cioè del sistema di governo del Paese che parte dai territori e arriva da lì ai centri nevralgici del potere centrale.
Non credo dunque sensato che ci si occupi di presidenzialismo o di premierato e si disquisisca della vasta gamma di tecnicismi per un accordo anche largo o larghissimo per rafforzare il potere decisionale centrale senza occuparsi dell’intero sistema democratico. Perché non è vero che il problema principale è la stabilità, né è vero che tutto funzionerà meglio se si rafforza il potere decisionale del Presidente del Consiglio lasciando intatto tutto il resto. Ad esempio non è vero, come si vuole far credere, che così come sono oggi i comuni, le province e le regioni, rispondono alle esigenze di governo dei territori. Non è questione solo di poteri e di competenze, di sovrapposizioni e di pletora di organismi, ma anche di sistemi elettorali. È questione anche di elezione diretta di sindaci e presidenti di regione.
Dunque dobbiamo pensare ad una riforma di sistema meditata e ben fatta, con i tempi giusti e le modalità coerenti. Non può essere una danza solitaria nell’accademia dei partiti, con il popolo che si vorrebbe far contare di più e in realtà ridotto a spettatore distratto e vociante. C’è di mezzo la democrazia rappresentativa, che non solo non va ulteriormente depotenziata ma al contrario va recuperata ad una funzione vitale con una possibilità di dialettica tra diversi il cui punto di caduta sia l’esaltazione dell’interesse pubblico. Bisogna per questo dare nuovo vigore alle assemblee elettive a tutti i livelli, favorire una decisa razionalizzazione integrata dei sistemi di governo territoriale, sciogliere il nodo delle province, superare il regionalismo frammentato e competitivo a favore di reti funzionali delle città e dei territori.
Un complesso di questioni dunque che vanno affrontate con approccio e logica di sistema senza paraocchi ma con la precisa consapevolezza che, se in nome del popolo sovrano al popolo si toglie rappresentanza e ruolo, allora le riforme non serviranno né a dare stabilità al governo né a migliorarne le capacità e i risultati. Per questo il popolo va reso partecipe attivo del processo di riforma, nel suo inizio, nel suo percorso e nel suo esito. Non si può fare né con i colloqui tra i partiti né con una nuova bicamerale finalizzata.
Lo si può fare solo con un’Assemblea Nazionale Costituente eletta a suffragio universale con sistema proporzionale, che abbia, come detto, il compito di riformare, entro tempi determinati, la Costituzione in tutte le parti che in settantacinque anni hanno dimostrato di non rispondere più alle esigenze di governo di un Paese moderno. Mi auguro che su questa posizione si attesti, oltre a +Europa, il più largo spettro delle forze riformatrici, uscendo dai consueti tatticismi che avranno solo l’effetto o di non far niente o di peggiorare il male. Dobbiamo anzitutto alimentare la speranza.