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di Nicola Fano

Cavaro, Raxis, Mainas, Sanna: sono i nomi di alcune importanti famiglie di artisti sardi a cavallo tra il XV e il XVI secolo. La Sardegna, a quel tempo – occorre ricordarlo subito – era dominio spagnolo, sia pure con una certa libertà d’azione: l’influenza del papato era evidente, le mire di pisani e genovesi nei secoli precedenti erano state frenate da guerre sanguinose e solo poche enclave di autonomismo restavano saldamente in mano a governanti locali, specie nella zona centro-occidentale dell’Isola (il Campidano, l’Oristanese, la zona di Iglesias).
Si trattava, quindi, di una terra culturalmente legata alla tradizione spagnola, fortemente segnata dal cattolicesimo e da quella certa idea di primato identitario e politico, quasi un’ossessione autoreferenziale che, nel corso del Cinquecento, avrebbe portato alla costruzione dell’Impero di Carlo V e, poi, di suo figlio Filippo II. Un dominio fatto di guerre e di religione ma che, sappiamo,
era economicamente fragile (specie a fine Cinquecento), tanto che Filippo II dovette ricorrere spesso all’apparato bancario genovese (quello dei Doria, in special modo) per sostenere le sue imprese. E la capacità di mediazione tra spagnoli e genovesi, appunto, segnò fortemente la vita culturale autoctona in Sardegna e ne fece un luogo di incontro inevitabile tra le due potenze
“straniere”, una militare e una economica.
Ecco, raccontare qualcosa delle famiglie d’arte in Sardegna tra Quattrocento e Cinquecento può essere utile per capire come si sviluppavano le idee e come si diffondeva la creatività, un tempo. Mescolando tradizioni e lingue e identità, senza eccessiva paura dell’altro, del diverso da sé.
Partiamo dai luoghi dove queste famiglie d’artisti operavano. Innanzi tutto, la città (e il territorio) di gran lunga più importante, al tempo, era Cagliari, dominata dal celebre Castello (ancora oggi di grande fascino e pregio, con il suo dedalo di vicoli e palazzi imponenti). Subito sotto al Castello, lato Ovest, c’era la zona popolare della città: il quartiere Stampace. Qui abitavano e lavorano gli autoctoni (mente i rappresentanti del potere, destinati in Sardegna dalla Spagna vivevano direttamente nel Castello). Stampace, insomma, era un quartiere povero e artigiano, “periferico”, appunto. La leggenda vuole che si chiami così perché su quel lato delle possenti mura del castello di Cagliari venivano impiccati i reprobi. I cui corpi poi erano buttati direttamente nel dirupo – accanto all’antico anfiteatro romano – che fiancheggia il quartiere Stampace. Da qui il nome: “stai in pace”, Stampace.
Si consideri poi che non di rado, in passato, la gestione dei due luoghi contigui, il Castello e i quartieri sotto alla collina su cui sorge la cittadella cinta da mura, era divisa tra governi diversi, anche in conflitto tra loro, nei secoli precedenti a quello di cui stiamo parlando qui. Sicché appare ancora più evidente la divisione tra città del potere (il Castello) e città dell’artigianato e delle arti (i quartieri in basso). E, infatti, a Stampace nacquero e prosperarono per più di cent’anni alcune importanti botteghe d’artisti, tanto che gli storici dell’arte oggi identificano quei pittori e le loro opere con il nome “Scuola di Stampace”.
Il protagonista più noto della “scuola di Stampace” è sicuramente Pietro Cavaro, figlio, nipote e padre di una dinastia d’artisti attivi a Cagliari (e non soltanto, come vedremo) tra la metà del Quattrocento e l’intero secolo successivo. Nella pittura di Pietro Cavero, morto a Cagliari nel 1537, ci sono i segni di una sorta di manierismo ante litteram che non ha nulla a che vedere con quello veneziano dei decenni successivi, ma che filtra con una sensibilità personale sia il gotico sia il manierismo spagnolo del tempo. E la convenzione pittorica spagnola a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento è strettamente legata alla antica tradizione
fiamminga, quella che va da Jan van Eyck a Hieronymus Bosch. Qualcosa di molto lontano dal rigore del contemporaneo Rinascimento Fiorentino, Umbro o Veneziano.
Città di grandi commerci, la Cagliari dei pittori era legata a doppio filo con la Spagna più che con la penisola italiana: Pietro Raxis e suo fratello Antonio Giovanni, prima di aprire bottega a Stampace furono in Andalusia (sardo di nascita, Pietro Raxis morì proprio in Andalusia nel 1581), mentre Pietro Cavero operava anche a Barcellona.
Del resto, la pittura sarda tra Quattrocento e Cinquecento ci ha lasciato soprattutto retabli, ossia la variante spagnola dei polittici: costruzioni lignee composte da vari dipinti e una predella – non necessariamente legati da un unico tema – inseriti in una struttura geometrica rigorosa: solo angoli e niente curve (che invece caratterizzano i polittici). Due sono gli elementi che sorprendono in questi pittori: lo stile unitario più vicino alla pittura gotica che a quella rinascimentale italiana (l’oro risalta più dei colori) e la gestione familiare, quindi autoreferenziale delle botteghe. Erano pittori che privilegiavano l’artigianato, il lavoro, il mestiere, rispetto – come dire? – all’arte. Rispetto all’ispirazione e alla teorizzazione del bello. I loro dipinti sono più semplici che simbolici: i pittori di Stampace si preoccupano di comunicare emozioni a un pubblico vasto, multiforme. Forse meno colto, o meno pretenzioso, si direbbe, rispetto ai loro colleghi fiorentini o umbri o veneziani. Ecco, vedendosi sfilare davanti agli occhi le opere della Scuola di Stampace, sembra quasi di vedere una versione pop del nostro Rinascimento. E in questo, in fondo, sta la loro unicità. Per verificarlo, basta fare una visita (ne vale davvero la pena) alla Pinacoteca di Cagliari che testimonia la ricchezza della Scuola di Stampace ed è un piccolo tesoro che andrebbe visitato e apprezzato di più nel circuito del turismo culturale dell’Isola.
Ma, lontano da Cagliari, c’è un secondo altro luogo di grande creatività nella Sardegna a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento ed è il Nordovest dell’Isola da Sassari a Castelsardo: lontani dalla capitale (e dalle influenze spagnole) si formano e operano pittori che assumo stili autonomi e diversi. Stiamo parlando del Maestro di Castelsardo e del Maestro di Ozieri.
Il primo fu attivo, soprattutto a Calstelsardo – nel Nord estremo dell’Isola – tra la fine del Quattrocento e l’inizio del secolo successivo. Le sue opere più significative sono conservate, appunto, nella Cattedrale di Castelsardo, ma suoi segni sono sparsi anche altrove. Secondo alcuni studiosi, dietro quest’appellativo ci sarebbe uno dei fratelli Cavero, Gioacchino, trasferitosi a Castelsardo dopo aver lasciato Cagliari. Di sicuro, le sue opere risentono della Scuola di Stampace anche se l’apparato gotico in lui è molto più evidente e, viceversa, meno chiaro l’influsso del Rinascimento italiano. Tanto che, secondo altri studiosi, dietro
l’appellativo di Maestro di Castelsardo sarebbe da identificare, anziché Gioacchino Cavero, un pittore di Valencia, Martì Tornèr.
Del tutto diversa, invece, la pittura del Maestro di Ozieri che deve il suo nome da un magnifico retablo dedicato alla Madonna di Loreto conservato nel Museo diocesano di Ozieri (importante centro del Logudoro, la regione a Sudest di Sassari) dopo essere stato ospitato per lunghi anni dalla locale, sontuosa cattedrale. Ebbene, una pagina di diario, conservata dal medesimo museo,
identifica un certo «mastru Andria Sanna de Othieri, pintore» come autore di un non identificato retablo: questa circostanza ha fatto ritenere che il Maestro di Ozieri sia in realtà Andrea Sanna, appunto, pittore di Ozieri. Comunque sia, costui è di un artista molto diverso da quelli trattati fin qui, e non solo per ragioni cronologiche (Sanna, ammesso che sia lui il Maestro di Ozieri, ha operato fino alla fine del Cinquecento).
Per esempio, nella splendida Basilica di Saccargia (una meraviglia da non perdere, a pochi chilometri da Sassari) sono conservati uno accanto all’altro due retabli attribuiti uno al Maestro di Castelsardo e uno a quello di Ozieri: ebbene, dal loro confronto è facile valutare la profonda differenza di stile. Il Maestro di Ozieri, infatti, ha già digerito alla perfezione la lezione della prospettiva (si concede il lusso di dipingere pavimenti a scacchi come i Toscani e gli Umbri) e usa la luce in modo del tutto nuovo rispetto alla scuola di Stampace: quasi più nulla c’è del retaggio gotico mentre i volti e i drappeggi esprimono direttamente passioni ed emozioni. Insomma, con il Maestro di Ozieri siamo nel solco pieno del Rinascimento italiano. E ciò sta a testimoniare come le idee dell’arte (e della cultura in genere) procedessero tramite contaminazioni costanti e con una libertà e una immediatezza oggi impensabili. Segno di un tempo memorabile, probabilmente irripetibile in cui le società avevano fiducia negli uomini e nelle
idee. E quindi poteva capitare che una cittadina dell’entroterra sardo potesse dialogare con le capitali dell’arte grazie alle intuizioni creative, al talento e alla voglia di racchiudere il mondo in una tavola di legno colorata.