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di Lucio Biagioni

Parmi non sol gran mal, ma che l’uom faccia
contro natura e sia di Dio ribello,
che s’induce a percuotere la faccia
di bella donna, o romperle un capello;
ma chi le dà veneno, o chi le caccia
l’alma del corpo con laccio o coltello,
ch’uomo sia quel non crederò in eterno,
ma in vista umana un spirto de l’inferno.

All’inizio del quinto canto de L’Orlando Furioso, Lodovico Ariosto mette in bocca a Dalinda, la domestica personale di Ginevra figlia del Re di Scozia (in una fitta storia di scambi ed equivoci e amori e gelosie, la cui posta in gioco è però la vita o la morte delle due donne) ciò che pensa del rapporto fra i sessi, in relazione a temi che oggi si chiamerebbero parità, violenza di genere e femminicidio. L’ottava ariostesca, or sono oltre cinque secoli, potrebbe descrivere perfettamente il macabro oggi. Non possono non venire in mente i nomi recenti di una lunga, tragica lista, Giulia Cecchettin, percossa e accoltellata dal fidanzatino; o Giulia Tramontano, che di coltellate ne ha sofferte 37, tutte da tergo, nel gergo tribunalizio, non essendo bastato il veleno che il promesso sposo le propinava da mesi, per uccidere lei e il bambino che portava. Vetrina degli orrori, e dell’ignoranza. Oggi come e più di ieri. E che l’argomento l’abbia particolarmente a cuore lo prova l’ampiezza, anche teorica, che l’Ariosto gli dedica, tra la fine del quarto e l’inizio del quinto canto: “Tutti gli altri animaj che sono in terra”, argomenta unendo allusione dantesca e anticipazione leopardiana, vivono quieti e stanno in pace, e, se si fanno guerra, “alla femmina il maschio non la face:/ l’orsa con l’orso al bosco sicura erra,/ la leonessa appresso il leon giace; col lupo vive la lupa sicura,/ né la juvenca ha del torel paura.” E dunque? “Ch’abominevol peste, che Megera/ è venuta a turbar gli umani petti?/ che si sente il marito e la mogliera/ sempre garrir d’ingiurïosi detti,/ stracciar la faccia e far livida e nera,/ bagnar di pianto i genïali letti;/ e non di pianto sol, ma alcuna volta/ di sangue li ha bagnati l’ira stolta.”
L’ira stolta, infondata. Perché L’Ariosto non ha dubbi sul diritto uguale dell’uomo e della donna: “S’un medesimo ardor, s’un disir pare/ inchina e sforza l’uno e l’altro sesso/ a quel suave fin d’amor, che pare/ all’ignorante vulgo un grave eccesso;/ perché si de’ punir donna o biasmare,/ che con uno o più d’uno abbia commesso/ quel che l’uom fa con quante n’ha appetito,/ e lodato ne va, non che impunito?” La donna, dice l’Ariosto, ha diritto all’amore, alla libertà del desiderio e del piacere esattamente quanto l’uomo: e se la legge (col placito e il sostegno del volgo ignorante) “vuol ch’ogni donna, e di ciascuna sorte/ ch’ad uom si giunga, e non gli sia mogliera,/ s’accusata ne viene, abbia la morte”, allora – fa dire all’indignato paladino Rinaldo – è una “legge disuguale”, che fa “veramente alle donne espressi torti”: “Una donzella dunque de’ morire/ perché lasciò sfogar ne l’amorose/ sue braccia al suo amator tanto desire?/ Sia maladetto chi tal legge pose/ e maladetto chi la può patire.”

Una sera di fine agosto del 1773, Giacomo Casanova conosce a Gorizia, in casa del barone Franz Xavier Königsbrunn, il giovane conte Luigi Torriano di Valsassina, che lo invita a passare con lui il noioso autunno in una villa di campagna che possiede a Spessa, distante sei miglia da Gorizia. Non più ricco anzi impoverito, con non più di quaranta o cinquanta zecchini nella borsa, il Cavaliere di Seingalt accetta volentieri. Il primo settembre si presenta puntuale a casa del conte, del quale però, nel corso dei giorni, deve subire stranezze e piccoli affronti, che sopporta per necessità travestita da cortesia. Né si stupisce più di tanto. Qualche giorno prima, a Gorizia, aveva avuto modo di conoscere di che pasta fosse il conte, impegnato nella Sala delle Udienze in una causa che l’opponeva ad un suo contadino per questioni di lavori non pagati e di ricevute false. Il contadino era venuto in tribunale con la famiglia: la moglie, un figlio e due figlie, vestiti dimessamente e con un aspetto onesto che testimoniava – nota Casanova – “la loro condizione di oppressi” e “avrebbe dovuto far vincere loro tutti i processi della Terra.”
Invece, avevano già perso due volte. Ma stavolta vinsero. Inoppugnabilmente si dimostrò che il conte aveva falsificato le carte. E non era l’unico vizio. Convinto che i contadini gli rubassero l’uva da vino, entrava nei tugurî dei lavoranti armato di bastone, e se trovava un grappolo in giro li vergava inginocchiati nonostante le suppliche. Un giorno che si porta appresso Casanova, due contadini si ribellano e ne nasce una rissa. Torriano esige che l’ospite gli dia manforte, ma Casanova non ci pensa nemmeno. Dice anzi al conte che ha torto marcio. I contadini minacciano lo sciopero, e Casanova ammira deliziato il loro “sublime ragionamento filosofico”: i lavoratori – sostengono – hanno tutto il diritto di mangiare un grappolo d’uva, dal momento che la vigna non ne avrebbe prodotto neanche uno, se essi non l’avessero coltivata.
Marxismo ante litteram? Casanova, alloggiato dal conte in una brutta camera a pianterreno isolata dal resto, riceve ogni notte la visita di una giovanissima, di nome Sgualda, che sul far del giorno esce non vista da una piccola porta che dà sulla via. Casanova l’accompagna, per richiuder l’uscio. Sono tranquilli, i due amanti. La loro relazione è ignota a tutti, lei è vedova, non c’è da temer né padroni né gelosi né invidiosi. Si sbagliano. Una mattina, al di là della porta, Casanova sente delle grida. Riapre e si trova davanti il conte infuriato, che con la sinistra tiene la ragazza per la gonna, e con la destra la riempie di bastonate. Veder la scena e saltargli addosso è per Casanova impresa di un secondo. Sgualda scappa, i due finiscono a terra, il conte sotto e Casanova sopra: il quale, in camicia com’è, con una mano gli blocca il braccio del bastone, con l’altra cerca di strangolarlo. Con la sua mano libera Torriano di Valsassina lo agguanta per i capelli. Ma dopo un po’, prossimo al soffocamento, molla la presa. Casanova s’impossessa del bastone e giù legnate. Dalle chiacchiere e i commenti in paese su quella “zòtica avventura”, viene fuori che il conte Torriano, gran donnaiolo, odia Sgualda perché ha sempre respinto le sue avances, anche quando era maritata. Sfidato l’avversario a duello (ma giunti al dunque si ritirerà per paura), dice a Casanova che non aveva alcun diritto d’impedirgli di picchiare per strada una contadina la quale, in fin dei conti, “non gli apparteneva in nessun senso”. La proprietà, della donna come delle vigne. Non hanno diritti, gli oppressi. Eh no, gli ribatte Casanova: non c’è diritto che permetta di prendere in strada a bastonate “una persona libera”, pretendendo che non trovi un difensore in chi prova un affetto per lei: di certo non poteva tollerare che si uccidesse per strada una giovane “appena uscita dalle sue braccia”. E ciò valeva sempre, “quand’anche si fosse trovato a faccia a faccia con un grande prìncipe”. Fosse rimasto indifferente a quella scena, Casanova si sarebbe comportato da “vigliacco e mostro”, tal quale Torriano.

Quelli che hanno letto i Mémoires da cima a fondo (io lo feci incuriosito dal professor Eugenio Garin, che, durante una lezione, mise in guardia gli studenti sessantottini dalla delusione che avrebbero provato se, invece di scorgervi un grande affresco della vita settecentesca, avessero scambiato l’opera per un libro erotico) sanno che per Giacomo Casanova “L’Orlando Furioso” era più che una lettura. Era un libro di saggezza, un exemplum, un talismano che si portava sempre appresso, citato di continuo per spiegare gli eventi, e spesso (valga per tutti l’apertura del poema a caso, che gli suggerì la data migliore per la fuga dai Piombi) gli indica la via. Sulla parità di genere, Ariosto e Casanova collimano. A dispetto degli stereotipi che lo confondono col Dongiovanni che le donne le conquista pel piacer di porle in lista, Casanova aborre il seduttore di professione, colui – dice – “che fa del sedurre un progetto”: cioè “un uomo abominevole, sostanzialmente nemico dell’oggetto su cui ha posto gli occhi.” Il piacere delle donne, confessa Casanova, ha sempre costituito “i quattro quinti del mio.” E talune delle sue amiche – scrive – “erano così dotte e piene di spirito, che avrebbero lasciato qualsiasi spasimante a corto di argomenti dopo mezz’ora o meno di conversazione.”

In un assai taggato e dibattuto articolo apparso di recente (Storia Tossica della Letteratura Italiana, Il Post, sabato 20 gennaio 2024), Lorenza Pieri e Michela Volante mettono in guardia dai pericoli delle “innocue” antologie scolastiche, in cui “il sessismo e i pregiudizî di genere sono una costante”, e di ciò bisognerebbe tener conto quando si parla di “educazione affettiva” nelle scuole. Fra i vari esempî citano l’Ariosto (“A nessuno verrebbe in mente di gettar fango sui versi della pazzia di Orlando che abbiamo studiato con passione, ma, se ci astraiamo un attimo, quello che ci raccontano è una follia distruttrice considerata legittima, perché scatenata dalla gelosia”) nonché Casanova (“In ‘Storia della mia vita’ per Giacomo Casanova, il libertino per antonomasia, le donne sono prede più o meno difficili da conquistare, e di cui fare un mero, infinito elenco…”). Né viene risparmiato Leopardi (“La povera Silvia che lui spiava mentre studiava e lei era “all’opre femminili intenta’, e la ragazza de La sera del dì di festa, che dorme e ovviamente ignora i tormenti di lui, sono figurine monodimensionali di ragazze ingenue, inconsapevoli, sempliciotte, che non possono capire il senso della vita, meno che mai l’ingiustizia, del mondo al contrario di Giacomo.”) Mondo al contrario? Ma no. Leopardi, quando non è offuscato dall’ira per la Fanny biografica che in “Aspasia”, la sua peggior poesia, gli fa sfuggire quel famigerato e triviale “Non cape in quelle/ anguste fronti (delle donne, N.d.R.) ugual concetto”), scrive nello Zibaldone di non condividere i pregiudizî correnti sulla natura delle donne, e ne indica la causa nei “diritti che la legge e il costume comparte fra gli uomini e le donne. Ponete infatti le donne in altre circostanze, vale a dire che le leggi e i costumi non sottopongano la loro condizione a quella de’ maschi, e le donne saranno uguali o superiori agli uomini con cui trattano.” Il progetto di Pieri e Volante è lodevole, ma attenzione. Lo studio non è mai troppo.