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di Tommy Simmons*

Già a marzo, David Beasley, il responsabile del Programma Alimentare Mondiale (PAM) delle Nazioni Unite, disse “appena pensi che l’inferno in terra non può peggiorare, lo fa”. Si riferiva agli ulteriori rischi che la guerra in Ucraina avrebbe creato anche per tante altre popolazioni lontane e fragili. I temi che in questi giorni il sito del PAM (https://it.wfp.org) affronta ci riassumono chiaramente le popolazioni più sofferenti:
In Yemen fame acuta a livelli mai visti mentre scarseggiano i fondi;
Siria – 11 anni di conflitto e la fame a livelli storici;
Crisi alimentari globali – Bisogni alimentari mai così alti, anche prima della guerra in Ucraina;
Africa Orientale – alti costi, conflitti e clima dipingono un quadro drammatico per i rifugiati;
Corno d’Africa – Senza piogge, senza risorse. In Somalia, Etiopia e Kenia rischiano la fame milioni di persone.
E sopra agli altri titoli, in primis perché per centinaia di milioni di persone è l’unica speranza:
“Riaprire i porti sul Mar Nero per far uscire il cibo dall’Ucraina.
Il cibo bloccato in Ucraina potrebbe sfamare 400 milioni di persone ma si stima che la scarsità globale attuale sta mettendo a rischio 1,2 miliardi di persone perché per motivi climatici il successo della produzione agricola in Cina (il principale produttore mondiale) è in dubbio, perché forti ondate di caldo hanno danneggiato i raccolti dei colossi statunitensi e indiani (i secondi produttori mondiali di grano) portando l’India a bloccare del tutto le esportazioni di granaglie sulle quali molti altri paesi contavano e perché una ventina di paesi esportatori di cibo ha già deciso di bloccarne la vendita all’estero per tutelare la propria popolazione. La scarsità di cibo a livello globale e gli aumenti dei costi del carburante (senza il quale trattori e industrie si fermano) e soprattutto dei fertilizzanti stanno portando a rincari significativi dei prezzi delle derrate che oltre ad incidere sulla possibilità di nutrire chi vive nei paesi afflitti dalle crisi più gravi stanno svuotando le tasche di chi vive nei paesi più poveri del mondo – famiglie che già prima di questa crisi erano costrette a dedicare più del 40% del loro magro bilancio familiare per nutrirsi. “L’inferno in terra” visto da vicino da David Beasley si sta scaldando nell’immediato e purtroppo anche le prospettive future sono negative perché chi non può permettersi di lavorare i campi o di concimarli come si deve non può aspettarsi raccolti abbondanti.
Dato che a livello globale stiamo ancora emergendo dagli sconquassi causati dalla pandemia di Covid 19, che il conflitto in Ucraina e la crisi umanitaria che ha provocato stanno assorbendo ingenti risorse economiche (che avrebbero dovuto essere investite per arginare i cambiamenti climatici) e che le economie di molti paesi poveri sono già incrinate dall’inflazione e da crescenti livelli di indebitamento, i margini per far fronte al moltiplicarsi delle crisi sono molto limitati. In molti paesi ci si aspetta un acuirsi delle tensioni sociali e delle proteste (come quelle recentemente sfociate in Ski Lanka) con ripercussioni politiche imprevedibili. Anche per la Gran Bretagna, Andrea Bailey, il Governatore della Banca d’Inghilterra, ha dichiarato che il paese potrebbe dover affrontare livelli “apocalittici” di inflazione alimentare. Per il resto del mondo Antonio Guterres, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha avvertito che la crisi potrebbe “portare milioni di persone nel baratro dell’insicurezza alimentare” e che ne risulterebbero “malnutrizione, fame e carestie a livelli massicci e una crisi che potrebbe durare per anni”.
Nell’immediato tutti guardano al porto di Odessa per trovare una prima soluzione alla crisi. Visti gli enormi quantitativi di granaglie bloccati nei magazzini dell’Ucraina, l’unico modo per trasportarli fino ai paesi che ne necessitano è il trasporto navale. Gli esperti di logistica ritengono infatti che trasportare queste granaglie su strada e rotaia, attraverso la Romania e la Polonia per poi raggiungere i porti del Mar Baltico, permetterebbe di far arrivare a destinazione solo un 10% del totale disponibile. Odessa è l’ultimo porto importante sul Mar Nero rimasto in mano ucraina ma allo stato delle cose il porto è stato minato dagli stessi ucraini per difenderlo dall’aggressione russa; e la Russia, dal suo canto, ha istituito un blocco navale per assicurarsi che il porto non possa contribuire all’economia ucraina o agire come punto d’approdo per rifornimenti bellici da parte degli stati che sostengono il governo di Kiev.
Il vice-Ministro degli Esteri Russo Rudenko ha dichiarato che “la Russia è pronta a fornire il passaggio umanitario necessario, cosa che fa ogni giorno” (sic) aggiungendo che “la soluzione del problema alimentare richiede un approccio complessivo – compresa l’abolizione delle sanzioni che sono state imposte sulle esportazioni e le transazioni finanziarie della Russsia”. Dall’altra parte, Kiev fa leva sui rischi globali di una crisi umanitaria senza precedenti per ottenere il sostegno necessario per far riaprire le rotte del Mar Nero. L’Europa e la Nato accusano la Russia di ricattare il mondo a sostegno dei suoi obiettivi militari; la Russia accusa tutti coloro che sostengono l’Ucraina di ipocrisia e continua a biasimare l’Ucraina e suoi alleati per la crisi. I poveri del mondo, insomma, sono in balia di un complesso intreccio di obiettivi altrui che non sarà facile rimuovere. L’unica speranza resta una mediazione dei paesi rimasti più neutrali rispetto al conflitto (dalla Turchia alla Cina) e la loro capacità di garantire ai due principali attori del conflitto le condizioni che permetterebbero l’apertura del porto di Odessa. Ma i tempi sono molto stretti e gli interventi e compromessi necessari sono complicati. E naturalmente resta l’incognita dei reali obiettivi militari della Russia: se questi comprendessero una conquista territoriale che raggiungesse la Transnistria che occupano militarmente da decenni, allora Odessa eventualmente dovrà far fronte ad un attacco diretto che ne precluderebbe la riapertura, l’Ucraina dovrà combattere per conservare il suo ultimo sbocco sul Mar Nero, le granaglie stipate nei suoi magazzini marciranno e i frutti del prossimo raccolto non potranno essere conservati, prolungando ed accentuando la crisi globale.
Secondo un vecchio proverbio “la fame fa uscire il lupo dal bosco” e se l’attuale crisi non viene affrontata e risolta, oltre ai diffusi ed elevati gradi di sofferenza tra i più poveri c’è senz’altro il rischio di un diffuso acuirsi delle tensioni sociali un po’ ovunque. Non poter mangiare, non poter sfamare la propria famiglia, sapere che il deperimento fisico sta per diventare inevitabile è una delle sofferenze – anche psicologiche – più acute che si possono patire. L’aspetto umanitario delle crisi dovrebbe essere sufficiente per generare gli sforzi necessari per arginarla, ma se non bastasse sarà anche importante ricordare che i lupi affamati si interessano anche di chi è ben nutrito e che un maggiore instabilità globale danneggerà tutti.

*Fondatore di AMREF che è la più grande organizzazione sanitaria che opera in Africa