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di Fabrizio Croce

Sembra un paradosso che una città come Perugia, decenni fa all’avanguardia nell’aver perseguito forme di mobilità alternativa e nell’aver introdotto “zone a traffico limitato” a tutela del proprio centro storico (con sistemi di scale mobili ed ascensori a fare da connessione ed il minimetrò), oggi trovi il solo modo di… piantare paletti per difendersi dall’aggressione dei veicoli privati al suo patrimonio storico-monumentale.
Per onestà intellettuale va precisato che iniziarono le giunte di centro-sinistra di inizio millennio ad intervenire in aree del centro abitato ad alta residenzialità ed alquanto trafficate (Via dei filosofi, Corso Cavour, Via Brunamonti, Via Angeloni, ecc…) per salvaguardare il diritto di mobilità dei pedoni dalla inciviltà di chi parcheggia (con i paletti) e di chi va troppo veloce (con salvifici dissuasori a forma di rampa che oggi, a quanto pare, sono vietati dal codice della strada). Era giusto così allora e lo sarebbe anche ora.
Ma è stato l’avvento del centro-destra al governo della città che ha fatto di questa pratica un po’ brutale un vero e proprio “sistema” di gestione dei flussi, automobilistici e pedonali, alla faccia di alcune controindicazioni basilari che attengono al buon senso prima ancora che alle norme.
Il paletto delimita radicalmente la carreggiata dal marciapiedi, ma questo, in molti casi, ha finito per restringere ben oltre i limiti minimi di legge lo spazio per i pedoni (lungo Via San Domenico, ad esempio, in modo eclatante), anche laddove la presenza di stalli di sosta per le auto potrebbe già fungere da filtro tra i due percorsi rendendolo superfluo.
Il “paletto”, in qualunque materiale e forma, moltiplica barriere architettoniche per chi deambula male in una città che non ha mai brillato per sensibilità da quando questo è un “Tema”.
Il paletto richiede un’opera di perforamento e muratura con effetti estetici e fisici irreversibili sullo stato della superficie su cui viene piantato, che si tratti di volgare asfalto o preziosa pietra serena poco importa.
Il paletto impatta sul contesto circostante, suscitando più di una perplessità laddove va a modificare l’orizzonte visivo di un’area di valore monumentale, come è già accaduto in prossimità di sagrati di chiese: Sant’Ercolano, San Filippo Neri, Santo Spirito (dove qualcuno poi ha visto bene di intervenire con un frullino per rimuovere gli ostacoli indesiderati) o all’Oratorio dell’Annunziata (dove anni addietro un pilastro di travertino è stato furtivamente spostato di sede con tanto di muratura per facilitare il parcheggio ad un’utilitaria di piccolo taglio, il cui proprietario evidentemente vantava un diritto “divino” ad occupare quel posto).
Il paletto oggi domina incontrastato all’interno di pur apprezzabili opere di riqualificazione di luoghi di pregio storico-artistico come è già avvenuto in Piazza Matteotti e Piazza Morlacchi e come, stando al progetto, accadrà in Piazza Danti.
Ma perché ci si è arresi alla logica del paletto?
Le precedenti amministrazioni avevano affrontato il problema a monte provando a regolamentare e, specificamente, restringendo l’accesso al centro storico ai soli mezzi autorizzati, con tanto di Osservatorio sulle ZTL che monitorasse ogni deriva, e creando qualche isola pedonale “di fatto”. Ma questo, si sa, ha alimentato un dibattito infinito nella città, generando negli anni continue variazioni sul tema “aperto o chiuso”, pur in presenza di risultati virtuosi (nella parte alta di Corso Cavour, ai piedi di S.Ercolano, in Via della Viola o nella restaurata Piazza Santo Stefano, alla base di Via dei priori) che avrebbero dovuto suggerire minori resistenze tra residenti e commercianti.
Da quando si è insediata la prima Giunta a guida Romizi, anche su pressione degli operatori economici di maggior peso, si è scelta l’apertura del centro storico al traffico veicolare, con alcune restrizioni riguardanti per la maggior parte vie interne e solo in orario antimeridiano, e ciò ha abituato cittadini, viaggiatori, addetti alla logistica che si possa cercare e si debba trovare parcheggio ovunque ed in ogni luogo.
Così non ci si deve sorprendere nel 2023 di trovarsi un centro storico assediato dalle auto, abbrutito da parcheggi creativi (davanti a sagrati, monumenti, saracinesche, portoni, negozi e botteghe, sui marciapiedi, nelle rotonde, ovunque), avvelenato dai gas di scarico di veicoli alla perenne ricerca di un ambito parcheggio e costellato di paletti dislocati a difesa del territorio come… mine anti-uomo. È nient’altro che la nemesi di una politica dissennata che anziché perseverare nella cultura della città a misura d’uomo, della riconquista degli spazi e della bellezza che ci circonda un po’ ovunque, ha inseguito il consenso di corporazioni e conventicole incapaci di tradurre in azioni concrete e coraggiose il progetto di fare della acropoli un “centro commerciale naturale” su cui anche la Regione Umbria aveva investito risorse.
Per poterlo conseguire occorrevano parcheggi funzionali, strumenti di mobilità alternativa, una rete di trasporto pubblico locale efficace e capacità di connettere tra loro con una logica strategie di promozione, marketing e logistica innovative, offerte (anche rispetto all’agognato parcheggio) e pacchetti diversificati per tipi di utenza, come avviene in ogni Centro commerciale che si rispetti (che il parcheggio te lo dà gratis).
Per poterlo rendere sostenibile andava stimolata una nuova residenzialità, salvaguardata la bio- diversità dell’offerta commerciale-artigianale, recuperata con determinazione la capacità di aggregare anche al chiuso, che, dopo la sistematica chiusura di ogni contenitore pubblico e privato, da una decina d’anni si è completamente persa (Turreno, Pavone, Lilli, S.Francesco, Mercato coperto, Contrappunto, Velvet, ecc.).
Per poterlo rendere un’idea vincente ne andavano estese le modalità e le dinamiche anche al sistema turistico/museale, così da superare nelle potenzialità seduttive qualunque Centro commerciale di periferia.
Così oggi stiamo fortificando vie e piazze con interminabili “barricate” di paletti, anche quando esistono divieti ben visibili ed anche se si potrebbe ricorrere a forme alternative di protezione degli spazi pedonali (con fioriere, panchine o altre soluzioni di arredo e attraverso azioni concertate di “urbanismo tattico”, nuova ed ancora inesplorata dalle nostre parti frontiera del “risorgimento” della città a misura di cittadino).
Il tema vero è che in un mondo ideale i progetti a lungo termine andrebbero realizzati e poi perseguiti, i divieti andrebbero rispettati e poi fatti rispettare, le violazioni andrebbero sanzionate e poi pagate.
Invece nel mondo reale di Perugia del progetto centro commerciale naturale ci si è completamente dimenticati, anzi virtualmente non è nemmeno stata posta la prima pietra, e semmai sono i centri commerciali “virtuali”, quelli che vendono on-line, che sono venuti a scorrazzare con i loro furgoni elettrici in lungo ed in largo dentro la città, a consegnare costosi sogni ai residenti.
Il controllo della strada e le multe paiono non competere più alla “municipale”, perché il vigile urbano di una volta è stato trasformato in un “poliziotto locale” poli…funzionale, costretto a girare armato (di pistola e taser elettrico) ed esercitarsi periodicamente al poligono, come se mancassero le “forze dell’ordine”, mandato ad eseguire “trattamenti sanitari obbligatori” a cittadini di ogni età e senza adeguata preparazione, come se mancassero operatori socio-sanitari, allenato per andare a cavallo o in bicicletta, come se dovesse andare alle Olimpiadi. Si comprende, poi, perché non girano a sufficienza per monitorare le strade.
Ora quel compito crudele, ma necessario in una società civile, spetta anche, e soprattutto, agli “ausiliari del traffico”, sul cui “fatturato”, si sappia, il Comune paga una percentuale al gestore spagnolo, non dico perugino, ma nemmeno italiano, dei parcheggi privati.
Inoltre, periodicamente e con un colpo di magia, come avvenuto pochi giorni fa, la Giunta azzera un discreto gruzzolo di crediti non riscossi da anni, derivanti in gran parte da vecchie contravvenzioni automobilistiche, accrescendo nel cittadino medio, almeno in alcuni cittadini meno medi, il senso di impunità per certi peccati veniali e la consapevolezza che le violazioni si possono anche non pagare.
Alle porte abbiamo un nuovo progetto con cui la città pare volersi adeguare, non si capisce se per convinzione o inerzia, all’istanza delle città moderne: creare delle “Zone 30” dentro la città più densamente abitata (se ne sta studiando la fattibilità al Borgobello, nella zona universitaria di Elce, in Via Birago, al Bellocchio, a Ponte S.Giovanni e San Sisto), il che non equivale, come alcuni pensano, a mettere segnali stradali che impongono il limite di velocità a 30 km./h, ma nemmeno legittima la perentoria ed insindacabile collocazione di paletti.
Altrove si studiano azioni di moderazione della velocità, si restringono le carreggiate a favore di un maggior spazio per i pedoni, si usano le nuove tecnologie per indurre gli automobilisti a rallentare e si fanno campagne di sensibilizzazione, ma, soprattutto, si coinvolgono i quartieri e le organizzazioni che da anni si adoperano per creare “strade sicure e vitali” nella elaborazione e nella messa a punto di questi progetti.
Quindi, come è plausibile, prima di fare scelte invasive e a volte dannose, si fa sperimentazione!
Il Consiglio Comunale giorni fa ha votato contro questa logica… contro ogni logica: siamo già avanti, noi, a che servono “manifesti di intenti”, “tavoli di concertazione”, test e monitoraggio delle novità?
Nel mondo reale di Perugia, dunque, i progetti si calano dall’alto, vada come vada, allora, forse è arrivato il momento… di mettere dei paletti.