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di Fabrizio Croce

Le cronache estive ci raccontano con una continuità preoccupante di turbolenze che coinvolgono le fasce più giovani della popolazione e che spesso sfociano in episodi di micro-criminalità o di autentica e disarmante violenza urbana.
Aggressioni, anche a mano armata, atti di sopraffazione gratuita, rapine, stupri, faide tra baby gang, e media che rimestano a sfinimento la favola della “mala movida” trasformandola da effetto in causa di una degenerazione sociale oggettiva, segno tangibile di tempi in vertiginosa ed inarrestabile evoluzione.
Non di meno, però, questa situazione è figlia di grossolani errori di gestione politica, che in ogni città trovano origini e forme non necessariamente riconducibili ad un’unica causa e richiedono un’analisi più accurata e contestualizzata, se non si vuol rischiare di generalizzare un grande, inquietante problema sociale.
Peraltro, e per ammissione degli stessi rappresentanti delle forze dell’ordine, non si può nemmeno affrontare un fenomeno così profondamente sedimentato con le sole armi della repressione e militarizzazione o con il coprifuoco, ammesso che tali mezzi rappresentino un deterrente ad una deriva sociale che ha nella strada, ovvero nella desolazione dei luoghi un tempo destinati alla socialità, la sua “zona di conforto”.
Se puntiamo la lente su Perugia, dove l’attuale compagine di governo ha messo radici anche spingendo sulla leva della sicurezza, della rimozione di fattori di marginalità sociale e disagio, del rafforzamento della prevenzione nelle scuole e nei luoghi di aggregazione, siamo di fronte ad un fenomeno oramai cronico.
Una patologia la cui consistenza si è alimentata in modo inversamente proporzionale allo smantellamento graduale del sistema di organizzazione sociale che solo fino ad un certo momento della storia cittadina recente, collocabile verso la fine del millennio scorso, seppe tener testa ad una disordinata espansione urbanistica e la cui dimensione nazionale non può oggi essere un’attenuante per chi ha ruoli di responsabilità.
La città di allora aveva un Assessorato dedicato, disponeva di una rete di spazi pubblici di aggregazione aperti al confronto-generazionale ed ispirati da un senso civico diffuso, dialogava con forme di imprenditoria dell’intrattenimento rimaste sane, finché sostenute da passione genuina e filtrate da regole di contingentamento, tollerava centro sociali “autogestiti”, usava consapevolmente strumenti di dialogo e, quando serviva, conforto a disposizione dei cittadini, particolarmente di quelli più sensibili.
La Perugia dell’ultimo scorcio di 20° secolo aveva, ad esempio, sviluppato un impianto di servizi sociali fatto di sportelli, consultori, punti informativi e veri e propri “centri di servizi”, di cui la categoria dei “giovani”, nello specifico, potesse avvalersi e di cui oggi restano solo macerie, in senso figurato: ciò in seguito ai tagli alla pubblica amministrazione ed alla razionalizzazione del servizio pubblico, ma anche a causa di una politica miope che tra le “linee programmatiche di mandato” non ha nemmeno inserito le politiche giovanili.
Il capoluogo aveva saputo incubare e stimolare con ogni mezzo, a volte con ingenuo, ma ancora incontaminato spirito provinciale, l’associazionismo, lo scambio culturale, la voglia di protagonismo giovanile.
Del resto, e non per caso, furono associazioni o piccole strutture indipendenti a generare e gestire i primi grandi festival e rassegne (da Umbria Jazz a Umbria fumetto, da Rockin’ Umbria al Festival del giornalismo), a creare locali e spazi multi-disciplinari (di cui resiste oggi il solo, inossidabile “Trebisonda” a Sant’Erminio, che a sua volta raccolse l’eredità del “Cavallo di troia”), a contribuire a fare della città quel centro nevralgico e pulsante di arte, cultura, sport amatoriali e socialità che tanta Italia invidiava, al punto da spingere nei decenni molti tra coloro che ancora oggi vi risiedono a sceglierla come meta di studio, lavoro o vita.
Cosa può aver spazzato via, in meno di un quarto di secolo, questo così raro e virtuoso eco-sistema cittadino?
Un tema da approfondire è rappresentato dall’approdo della criminalità organizzata in una realtà che a metà anni ’90 si presentava ancora vergine sotto quel profilo, al netto di qualche ladro di polli e isolate vicende di cronaca: una piaga, sino ad allora sconosciuta a queste latitudini, che ebbe sugli equilibri di una brillante, ma fragile città di provincia lo stesso impatto di un tornado.
Tanto devastante che, nel corso di pochissimi anni, la città che si era conquistata simpatia ed apprezzamenti (grazie al Jazz, al calcio di serie A, all’università cosmopolita, alla rivoluzione nella psichiatria, all’eccellenza negli studi archeologici e molto altro) divenne capitale della prostituzione di strada e snodo a livello macro-regionale per lo spaccio di droga: nessuno, ma proprio nessuno, seppe comprendere le dimensioni e gli effetti a lungo termine del fenomeno, anche su pezzi di città avvolti dal benessere o in apparenza insospettabili.
Per molti benpensanti bastò chiudere “Lacugnana”, irripetibile esperienza di vita, lavoro, socialità in un parco alle porte della città: a rileggere le cronache dell’epoca (estate 1996) stupisce la superficialità con cui la maggioranza e la minoranza politica del tempo, assordate dall’opinione pubblica che chiedeva un capro espiatorio, sembrò sconfiggere con uno schiocco di dita (metafora che raffigura la fatidica ordinanza comunale di chiusura) un cancro che iniziava a crescere in seno alla città, minacciandone l’immagine intonsa.
Da quel momento, a modo suo e diverso da altre realtà, Perugia divenne un sotterraneo laboratorio dei vizi, vero e proprio incubatore del malaffare organizzato e, nel tempo, distribuito a macchia d’olio in tutte le sue parti, a partire da alcuni dei suoi luoghi più suggestivi e simbolici, come San Francesco al Prato ed il PIncetto.
Fu proprio allora che la nostra città iniziò ad occupare stabilmente le vette di classifiche (percentuale di diffusione, morti per overdose, ecc.) per nulla invidiabili ed estremamente preoccupanti, perché, insieme agli altri dati, sancivano le dimensioni della diffusione delle droghe e del loro uso da parte dei più giovani.
Un secondo tema è dato dal crescente degrado in cui furono abbandonati gli spazi pubblici di aggregazione periferica (i mitici C.V.A, quei circa 50 centri di vita associata sparsi nei confini comunali, “sfogatoi” per il protagonismo dei cittadini declinato in chiave di sport, cultura e socialità) mentre la città fagocitava nel suo crescente territorio vecchie frazioni ed aree vicinali, facendone quartieri-dormitorio spesso privi di identità.
Per i giovani del comprensorio cittadino il “miraggio”, la sola via di fuga possibile dal nulla che li circondava dai primi anni ‘90 e per oltre un decennio, divenne la migrazione in auto o mezzi di fortuna nei due ghetti dell’intrattenimento nel frattempo sorti a suon di “varianti al piano regolatore”: uno nella zona industriale di S. Andrea delle fratte, l’altro concentrato tra le colline e la valle del Tevere in direzione di Deruta e Marsciano.
Erano entrambe, e lo sono tuttora, aree tanto lontane da occhi indiscreti ed orecchie sensibili, quanto prive di infrastrutture minimali e collegamenti pubblici, del tutto incapaci di dialogare o rispondere ai bisogni primari di socialità dei cittadini, come potrebbe farlo un qualunque spazio sorto dentro un quartiere.
Un conto è farne aree produttive e centri direzionali, altro è impiantarci i soli momenti di socialità fruibili dai cittadini (e infiniti “incidenti del Sabato sera” non bastarono ad aprire gli occhi all’opinione pubblica).
Un terzo tema è che a fronte di un imprevedibile boom delle università cittadine, con crescita esponenziale della popolazione giovane nelle aree limitrofe – certificato a cavallo tra vecchio e nuovo millennio dal successo dei corsi di laurea in “Scienza delle comunicazioni” e “Comunicazioni internazionali”, che per la prima volta portarono nel nostro territorio anche studenti provenienti dalle ricche regioni del Nord-Est – crebbe in ambienti vicini al Palazzo la voglia di fare del centro storico una “città-museo”.
In pratica le politiche immobiliari ed urbanistiche del tempo, supportate da un corollario di leggi e regolamenti “ad hoc” (ZTL su larga scala, strisce blu divieto di rilascio di licenze di pubblico spettacolo, chiusura forzata di piccoli e grandi spazi di aggregazione, , ecc.), accelerarono verso una riqualificazione mirata e selettiva dell’acropoli: tale trasformazione radicale rappresentò per il centro storico la decisiva leva verso l’impoverimento di abitazioni popolari, servizi, attività commerciali ed artigianali (con il conseguente spopolamento di alcune classi sociali in fuga verso i nuovi quartieri più a buon mercato) ed il contemporaneo arricchimento di pochi e scaltri “accumulatori seriali di proprietà”. Ciò avvenne a danno dell’offerta culturale e commerciale, nonchè dei fragili equilibri di una città in frenetica e disordinata evoluzione.
Inoltre questo obiettivo, anche ammesso che fosse inserito in un più ampio disegno di “governo dei processi di trasformazione”, trovò un inatteso ed insormontabile ostacolo nel processo di liberalizzazione del commercio sdoganato dal Decreto Bersani del ‘98, che nella Perugia “centrifuga” trovò un provvidenziale trampolino di lancio: nel giro di pochissimo tempo negozi, botteghe e laboratori artigiani di ogni sorta vennero riciclati in piccoli “spacci” di alcool a basso costo e ad altissima redditività (intorno al 2004/2005 ce n’erano oltre 30 nel solo triangolo compreso tra Palazzo dei priori, Porta sole e Palazzo Gallenga).
Così il visitatore o l’osservatore esterno si trovava di fronte ad un centro cittadino semi-deserto di giorno e sovraffollato di sera (e di notte) con una concentrazione di pubblico di giovani e giovanissimi, soprattutto nei mesi meno freddi, che inevitabilmente teneva alla larga adulti e famiglie, spingendoli in altre direzioni.
Fu questo humus ad alimentare la mala pianta della “Perugia capitale della droga” ed a creare le condizioni ideali per un crimine odioso come l’omicidio di Meredith: un evento che in altre parti del pianeta forse non avrebbe sollevato tutto il clamore che gli è stato riservato, seminando nel tempo una tale scia di dietrologie e pregiudizio da macchiare oltre la decenza l’immagine ancora immacolata della città, il grado di percezione di sicurezza da parte di cittadini e visitatori, la voglia di fuga dei suoi giovani migliori o dotati di più mezzi.
Fin qui ho raccolto quello che onestà intellettuale e spirito critico mi portano a considerare un insieme di elementi di contesto storico-sociale in cui il fenomeno sopra descritto ha trovato terreno fertile.
Ora, però, lo stesso metro mi impone di fare una disamina di quelle azioni o scelte che nell’ultimo decennio – giusto il tempo di due tornate elettorali – hanno colpevolmente reso il fenomeno endemico, facendone una variante del “virus del disagio” particolarmente aggressiva per le difese immunitarie di Perugia.
Una città di dimensioni medie, dall’economia fragile e dalle prospettive di crescita non particolarmente rosee dopo la crisi del terziario, il congelamento delle assunzioni nel settore pubblico che ha lentamente corroso la fiducia in chi amministra ed il crack finanziario del 2008: una città che oggi, nonostante la fine della pandemia, ancora ne sconta gli strascichi sotto il profilo psicologico ed ha bisogno di qualcuno che se ne prenda cura.
Sul versante criminalità e percezione della qualità della vita, nonostante tanto fumo e propaganda, non sembra che siano stati fatti grandi passi in avanti: ancora oggi a Perugia si muore di eroina come a Milano e Napoli – ce lo dicono in questi giorni fonti autorevoli – e l’incessante richiesta di sicurezza da parte della cittadinanza, amplificata dai media, sembra voler dire che non si è ancora saputo porre un rimedio.
Quando poi si legge che protagonisti di alcuni dei più spiacevoli eventi di cronaca su scala cittadina, in centro come in periferia, sono giovani o giovanissimi si può ben comprendere come la soluzione, anzi la comprensione stessa della natura e delle dimensioni del fenomeno, siano ancora di là da venire.
Quanto all’aggregazione giovanile ed alla socialità, da tempo oramai, abbiamo assistito al tramonto di modalità e luoghi di intrattenimento di vecchia generazione – discoteche, di cui all’inizio degli anni ’90 qui si registrava un’oggettiva sovrabbondanza, ma anche cinema, teatri, hobby e sport amatoriali – rimpiazzata solo in minima parte da “format” itineranti e fenomeni effimeri che riempiono poche serate nell’arco dei 365 giorni e sostituita in gran parte dei giorni e delle notti dalla strada, con tutte le sue insidie.
I più giovani, poi – palesando una disillusione crescente dopo i fatti del G8 del 2001– paiono aver smarrito la propensione all’elementare atto di associarsi, condividere idee, passioni o attitudini dentro “entità” neutre, ma in qualche modo fisiche: la “Consulta dei giovani” strumentalmente introdotta dalla maggioranza cittadina ha faticato a trovare adepti, tanto poche sono le realtà associative di natura non studentesca.
L’ascesa dei Social media a luogo eletto, virtuale ed impalpabile, degli scambi di relazioni di ogni sorta, ha inconsapevolmente trasformato la categoria “giovani” in individui sempre più frazionati ed isolati, se non quando è la strada – ancora, con le sue leggi non scritte – ad esercitare un richiamo ad unirsi o scontrarsi.
Il tema ambientale, declinato su scala planetaria, pare essere l’unico elemento aggregante già prima dell’avvento dei “Fridays for future” nel 2018, ma se pensiamo alle modalità scelte dai giovani per esprimere malessere negli ultimi due decenni (sfociate negli indisponenti “gavettoni” contro le opere d’arte usati a messaggio dagli attivisti di “Ultima generazione”) ci accorgiamo che qualcosa nel mondo si è spento.
Quel vento contagioso di ribellione creativa che ha animato ogni rivoluzione negli ultimi 150 anni, trascinando come onde le tante nuove, genuine correnti artistiche e culturali, pare essersi irrimediabilmente dissolto dentro un’aria dove la saccenza, il livore e la superficialità spesso predominano sull’entusiasmo più sano.
Da un quarto di secolo i processi di trasformazione sociale, in Italia e nel mondo, non hanno una colonna sonora, dei colori o dei segni riconosciuti e codificati: sarà un caso o dobbiamo rifletterci seriamente?
Di un tale contesto storico la nuova classe politica perugina non ha saputo leggere segnali che parevano chiari ed incontrovertibili già dieci anni fa e si è piegata in modo sempre più palese alle parole d’ordine della cultura di cui è figlia: ordine, sicurezza, protezionismo, difesa di identità e famiglia e via di questo passo.
La voglia di partecipazione e rappresentatività dei giovani, soprattutto della popolazione studentesca – alle prese con problemi di residenzialità e mobilità, carenza di spazi per lo studio e la socialità, necessità di supporto ed affiancamento nell’accesso al mondo del lavoro ed alla vita con tutto il suo carico di responsabilità – è stata puntualmente repressa dalla mancanza di luoghi e momenti istituzionali di confronto e dal graduale impoverimento di tutto quel sistema di servizi e agevolazioni che per decenni aveva arricchito una città come Perugia a vocazione universitaria, trazione inclusiva e, addirittura, tradizione cosmopolita.
All’aumento esponenziale di ordinanze, divieti, telecamere, dissuasori, forme di sicurezza privata miranti a certificare un impegno nel dare sicurezza e controllare i processi- che si è tradotto nel porre freno alla vitalità ed al bisogno di aggregazione insito nell’età più acerba – è corrisposta una preoccupante tendenza al disimpegno che ha caratterizzato le politiche giovanili nell’ultimo decennio.
Come altro possiamo leggere il graduale smantellamento di servizi storici (Informa-giovani) o innovativi (il trasporto pubblico notturno “Gimo”), la mancata attivazione di strumenti già regolamentati (come la Consulta studentesca), la chiusura a tempo indeterminato di luoghi preposti (P.O.S.T. e biblioteca di Villa urbani), la dichiarata inidoneità di spazi ad ospitare attività di aggregazione (la maggior parte dei CVA).
Quanto alla cultura giovanile c’è un’evidente impreparazione a leggerne i segnali e ad interpretarne le istanze se si arriva a dare il patrocinio a concerti di personaggi spregiudicati che hanno sdoganato modelli di vita e stereotipi negativi alimentando la propria fama del disagio adolescenziale e si ignora sistematicamente l’attività e la vitalità di piccoli centri di arte e creatività sorti miracolosamente nel comprensorio cittadino.
Alla graduale crescita di ghetti urbani caratterizzati da un’alta concentrazione di cittadini immigrati non è seguita una politica orientata al riequilibrio sociale dei quartieri o della popolazione scolastica o ad una implementazione della rete dei servizi alla persona finalizzati alla integrazione ed alla inclusione (sulla carta esisterebbe anche una Consulta degli immigrati, ma solo sulla carta…).
Così anche nel nuovo millennio nella prassi e nell’immaginario comune in città esistono comprensivi scolastici di serie A e serie B e le istituzioni sembrano ignorarlo o fanno finta di nulla per invertire il fenomeno provando a correggerne gli squilibri, anche con progetti e strumenti innovativi (in questo senso fa eccezione l’Indirizzo musicale portato a Ponte Felcino), forme di incentivo o azioni di rete e scambio di buone pratiche.
All’irrigidimento di regole, vincoli e sanzioni volti a limitare ed irreggimentare i “locali pubblici”, ovvero spazi di aggregazione veri, strutturati, protetti e portatori sani di creatività, si contrappone l’impotenza manifesta di fronte alla crescita indiscriminata di “pubblici esercizi”, “non luoghi” costruiti solo sul lucro potenziale.
Si tratta di decine di piccoli spazi con affaccio su strada, facilitati dalla liberalizzazione commerciale selvaggia e senza responsabilità diretta su quanto accade all’esterno (ordine pubblico, decoro, schiamazzi), privi di ogni contenuto “di origine controllata” ed anzi capaci – dati alla mano – di intossicare le ultime due generazioni di adolescenti in modo lecito attraverso l’esca dello “shottino”: a Firenze, per dire, li hanno bloccati.
Alla necessità di spingere le persone dalla strada verso luoghi e momenti di aggregazione la politica da un decennio pare saper rispondere, tanto più ora che regione e capoluogo si avviano alle nuove tornate elettorali, solo con la logica degli “eventi”, tanto belli, quanto effimeri se isolati dal contesto.
L’enorme flusso di risorse che dall’Europa, attraverso ministeri e regioni – soprattutto dopo l’emergenza Covid ed in tempo di PNNR – si sta riversando sulle città in nome dello “sviluppo dei territori” qui pare trovare una declinazione solo in questa parola magica che si traduce in concerti, spettacoli e festival di ogni sorta. Eventi numerosi e colorati come sagre da qualche tempo animano piazze, borghi, ma anche quartieri periferici, alcuni oggettivamente emarginati, “drogando” letteralmente il loro bisogno di socialità.
Per gli utenti, al netto di una disponibilità economica non sempre sufficiente a ripagare tanta e le offerta – logicamente concentrata in gran parte nei mesi caldi – pare manna dal cielo, ma quanto e come può durare?
Perché non investire anche in strutture da riaprire, riqualificare, ridestinare, aperte tutto l’anno – la Lacugnana di cui sopra, ad esempio, era come un “evento” spalmato sui 100 giorni più caldi – funzionali ad essere incubatore per una nuova cultura dell’intrattenimento e del tempo libero? Allora, sì, ci sarebbe una molteplicità di alternative alla strada…
Perché non formare una nuova imprenditoria modellata ed attrezzata per gestirle, in grado di stimolare piccole economie di scala, capaci di risvegliare quartieri dormitorio e rigenerare pezzi di città?
Allora, sì, i tanti eventi farebbero da ciliegina su una torta già saporita…
Perché non investire anche nel consolidamento e nella crescita di chi già svolge, dal basso, con le proprie gambe o in forma associata, attività di formazione artistica e sportiva, di progettazione e programmazione culturale, di promozione sociale e cura dei bisogni più primitivi?
Allora, sì, il disagio troverebbe meno terreno fertile su cui attecchire.
Tutto ciò non può certamente cancellare gli effetti nefasti, né indirizzare altrove la narrazione della “mala movida”, che alla prima occasione ghiotta – potete scommetterci – riprenderà ad occupare le prime pagine, ma la politica non può limitarsi ad amministrare la quotidianità e coltivare facili consensi anche sul minimo sindacale (come annunciare il Piano strade o travestire conferenze unilaterali in assemblee partecipative): la vera politica deve cercare e sostenere soluzioni a lungo termine, bisogna avere una visione non rincorrerla.