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di Gabriella Mecucci

Il numero di visitatori della mostra di Perugino ha raggiunto quota 102.500. Un risultato straordinario raggiunto nell’arco di poco più di tre mesi, con una media di mille al giorno. Tante gente, tanto interesse. Chi è l’uomo che a 500 anni dalla sua morte continua a generarlo? Quel genio di Virginia Woolf diceva: “Noi siamo soliti raccontare ciò che hanno fatto illustri personaggi, ma quasi mai sveliamo chi sono”. E allora facciamolo con Perugino, aiutati da Marco Pierini che della mostra è stato uno dei due curatori. E che annuncia la pubblicazione in settembre di una valanga di documenti sulla vita del “divin pittore” in un libro di oltre 600 pagine. “È l’artista del Cinquecento su cui c’è stato il più ricco ritrovamento di carte d’archivio”, chiosa.
Ecco l’uomo che emerge dalle tante fonti a disposizione.
Pietro Vannucci era un’artista molto originale. Di lui si è detto e scritto per anni che fosse poco creativo e molto ripetitivo. È vero il contrario. Fu il primo ad esempio a mettere le figure delle sue opere dentro architetture senza pareti e a piazzarle su piani diversi. E poi s’inventò iconografie mai apparse della Madonna. Solo verso la fine della vita si acquietò e rimase per qualche anno uguale a se stesso. Tanta vivacità non era accompagnata dalla cultura: leggeva poco e scriveva male. Era un uomo di bottega, non un intelllettuale. E soprattutto per questo non piaceva a Vasari che aveva come modello insuperabile Michelangelo: l’artista che ne sa più del committente, che è un pensatore, che sa fare di tutto (poesia, architettura, scultura). Vannucci era solo un pittore di grande talento. Fra i due artisti c’era una totale inconciliabilità e anche i loro rapporti umani furono difficili. Michelangelo disse di lui che “era goffo nell’arte” e per questo si beccò una bella denuncia. Molto diverso era invece il rapporto di Perugino con Leonardo. A partire dai tempi della bottega del Verrocchio, infatti, diventarono amici. E poi si ritrovarono insieme per diversi lavori: fecero entrambi parte ad esempio della commissione che decise dove mettere il David di Michelangelo.
Giovanni Sarti, padre di Raffaello, disse dei due “par d’etade e par d’amori” (stessa età e stessa passione per l’arte). E per valorizzare il grande talento del figlio scelse proprio Perugino spedendo quel giovane bello, ubbidiente, di buone maniere dal “meglio maestro d’Italia” che lo aiutò a diventare “il pittore più grande del mondo”, definizione quest’ultima di Vittorio Sgarbi.
Spesso s’immagina che un grande artista sia uno svagato sognatore, poco attento alla vita di tutti i giorni, tutt’altro che un tipo pratico. Perugino smentisce totalmente questo luogo comune: uomo di bottega, era attaccatissimo al danaro. Una buona metà della documentazione su di lui riguarda la gestione delle sue finanze: sappiamo molto degli interessi sulla dote della moglie che riscosse per tutta la vita, e della sua abilità a contrattare le retribuzioni. In queste “arti” era abilissimo. Era esoso e riusciva ad ottenere compensi altissimi anche perché era richiestissimo: da Papa Sisto IV, da Ludovico il Moro, da Isabella d’Este, dal doge. I suoi committenti erano tutti di prim’ordine, ma lui li trattava regolarmente male. Di Vannucci venne scritto: “Piglia più che non può, promette e non mantiene”. Consapevole della sua fama, si permetteva lunghi silenzi, fughe, rinvii continui. E quasi sempre consegnava l’opera con vistosi ritardi. L’unica volta che finì nei tempi dovuti fu alla Sistina: col Papa rispettò gli accordi. Per il resto, faccia tosta e spregiudicatezza non gli mancavano mai. Col doge fece il peggio del peggio: gli venne commissionato un telero per Palazzo Ducale che doveva raffigurare la battaglia di Spoleto, e lui, dopo essere stato strapagato, non realizzò mai l’opera. Tanto per dare l’idea di quanto venisse retribuito, si racconta che in quell’occasione gli furono dati ben 800 ducati, mentre un grandissimo come Giovanni Bellini, per un lavoro di due anni e mezzo nella città lagunare, ne ricevette 400. Mentre lui poteva permettersi ritardi e rinunce, non concedeva invece nemmeno un piccolo sconto ai suoi committenti. Lo dovette sperimentare a Perugia la Confraternita dei Disciplinati a cui mancarono pochi fiorini per il pagamento finale, e che subì il sequestro dell’opera sino a quando – grazie all’intervento del Comune – versò anche l’ultima moneta. Insomma Perugino, figlio di proprietari terrieri benestanti di Città della Pieve – oggi diremmo borghesi – diventò un grande artista, ma anche uno straordinario imprenditore di se stesso: esoso, bugiardo, “tira sole”, parecchio furbo. Non si accontentava solo dei redditi da lavoro, sebbene fossero altissimi, ma era anche un abile gestore dei suoi investimenti finanziari.
Per lui la passione per il danaro andava di pari passo con quella per le donne. Sua moglie, Chiara Fancelli era molto bella e molto più giovane di lui, come racconta Vasari. La sposò in età matura, ma nonostante ciò continuava a circondarsi di splendide diciottenni. Tanto è vero che un inviato di Isabella d’Este – venuto a incontrarlo per sollecitare la consegna di un quadro che come sempre ritardava – riferì alla sua Signora che Vannucci non aveva combinato niente, che il dipinto era in alto mare e che l’artista era un vero farabutto. Aggiunse però che sarebbe tornato volentieri a a fargli visita visto che la sua bottega era sempre piena di donne molto affascinanti. Quando Perugino tornò a Perugia in tarda età, la moglie non lo seguì. Rimase a Firenze coi cinque figli.
Di Caravaggio si conosce il temperamento rissoso e da poco di buono, ma anche Perugino aveva qualche pecca da questo punto di vista: venne processato per aver bastonato a sangue a Firenze un uomo. Lo aveva fatto insieme ad uno sconosciuto pittore di Perugia, Paulista D’Angelo. Anche in quell’occasione si comportò con grande furbizia e riuscì a scaricare il grosso della colpa sul suo accompagnatore che fu condannato ed espulso dalla città e che – come scrive la sentenza – “non dovrà più molestare Perugino”. Per lui invece solo dieci fiorini di multa. Insomma, era uno che riusciva a tirarsi fuori da qualsiasi impiccio e non esitava a usare gli altri per coprire se stesso.
E infine, quale fu il suo rapporto con la fede cristiana? Lui, il pittore delle Madonne più dolci e più belle era ateo, secondo Vasari. Ma questi – si sa – non lo poteva sopportare. In realtà nel Cinquecento era quasi impossibile che esistesse un miscredente allo stato puro. Probabilmente Perugino era solo poco interessato alla fede Era piuttosto un uomo pratico, un materialista. Anche in questo l’esatto contrario di Michelangelo che aveva una religiosità profonda e tormentata. In realtà lo stile pittorico di Pietro Vannucci fu sempre molto rispettoso dei precetti della Chiesa, tanto da essere accettato e prediletto persino da Savanarola. Prendendo in prestito un ossimoro di Giuliano Ferrara, potremmo definirlo un “ateo devoto”.