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di Gabriella Mecucci

Il comitato per il centenario di Perugino si è appena insediato e ha iniziato a lavorare sotto la presidenza di Ilaria Borletti Buitoni. Produrrà molte iniziative di valore culturale, turistico, promozionale a partire dalla mostra di 80 opere alla quale sta già lavorando la Galleria Nazionale dell’Umbria. Il 2023 rappresenterà una momento speciale per la regione, “un’occasione irripetibile” di rilancio dopo gli anni bui del Covid. E “il divin pittore” sarà il suo primo “ambasciatore”. Francesco Federico Mancini, docente di storia dell’arte all’Università di Perugia, aveva già partecipato ai lavori per la grande rassegna su Perugino del 2004 e oggi è di nuovo in prima linea come membro del comitato per il centenario e come curatore di due mostre.

Professore, chi è Pietro Vannucci nell’arte italiana?
I suoi meriti sono grandissimi e non ha mai conosciuto una caduta di interesse. Essere stato il maestro di Raffaello da un lato lo ha offuscato dall’altro lo ha aiutato a non essere mai sottovalutato, a restare sulla cresta dell’onda. Tanto è vero che quando i francesi alla fine del Settecento portarono via dall’Italia tante meravigliose opere, cominciarono da Raffaello e, subito dopo, con la seconda requisizione, passarono a Perugino. Con queste realizzarono al Louvre un percorso storico della pittura umbra che comprendeva anche artisti di epoca antecedente, ma che raggiungeva il punto più alto con Perugino e con Raffaello.

Pietro Vannucci da Città della Pieve ha lavorato lungamente in Umbria, la sua opera è molto diffusa sul territorio..
E’ così. Ci sono dei precisi percorsi perugineschi: penso soprattutto a Perugia e dintorni, nonché al Trasimeno e Città della Pieve. Non raggiunse invece Città di Castello, dove lavorarono Raffaello e Signorelli (di cui pire nel 2023 cade il centenario della morte ). Il divin pittore si mosse fra tre luoghi: l’Umbria, Firenze e Roma. E sarebbe opportuno non concentrare nelle celebrazioni il nostro sguardo solo sull’Umbria, ma aprire delle finestre sul contemporaneo patrimonio artistico fiorentino e sulla Città del Vaticano che ospita il ciclo più prestigioso. Mi sembrerebbe poi particolarmente importante che venisse valorizzata la presenza di Perugino sul territorio regionale.

Lei collabora a qualche mostra del territorio?
Si, a due. A Città della Pieve e a Deruta. In questa cittadina, che possiede un interessante Perugino giovane, sarà stimolante studiare anche l’importanza che ha avuto nelle decorazioni delle ceramiche. Un’arte che ha scelto come punti di riferimento sia lui che, ancor più, Raffaello. Il Collegio del Cambio ha funziona come modello non solo per i ceramisti del Cinquecento ma anche per quelli dell’Ottocento e dei primi del Novecento.

Professore lei poco fa mi ha parlato dei grandissimi meriti di Perugino, quali sono?
E’ stato l’inventore – e in questo sta la sua grandezza – di un nuovo modello di perfezione formale che riguarda la sfera religiosa e che avrà una grande presa anche aldilà dei territori dove ha lavorato. La sua fama arriverà infatti anche nel Nord Italia. Tanto è vero che negli anni Novanta del Quattrocento fu chiamato a Venezia per dipingere il Salone Maggiore del Palazzo dei Dogi. La trattativa non andò a buon fine per due ragioni: la prima riguardava i suoi prezzi che erano troppo alti e la seconda perchè gli si chiedeva di rappresentare delle tematiche profane per le quali non si sentiva sufficientemente versato. La committenza fu poi assegnata al giovane Tiziano. Perugino è stato l’artefice della moderna immagine sacra con un carattere di piacevolezza fortemente attrattivo. Con lui si verificò ciò che era accaduto nel Trecento con Giotto, che – in parallelo con quanto faceva Dante con la lingua – creò un modello unificante di pittura. E lo stesso riuscì a fare Perugino nel suo tempo. Con buona ragione, dunque, era del tutto consapevole della propria grandezza e originalità, tanto è vero che sotto al suo autoritratto del Collegio del Cambio scrisse di sé egregius pictor. Egregius etimologicamente significa fuori dal gregge. La committenza degli affreschi del Collegio era della corporazione dei banchieri, ceto sociale ricco e potente, ma Vannucci non si fece intimorire e impose i suoi prezzi per quel lavoro. Del resto allora aveva già dipinto la Cappella Sistina per Sisto IV. E anche più avanti, agli inizi del Cinquecento, Agostino Chigi, banchiere del Papa, consigliava al padre di chiamare Perugino per la sua Cappella perchè è il migliore “su muro”.

Lei ha paragonato Perugino a Dante e a Giotto. Si può dunque dire che contribuì all’unificazione culturale dell’Italia?
“In una certa misura sì. Aldilà della divisione del paese fra stati e staterelli, si verificò allora un’adesione molto ampia al suo nuovo modello di arte, al modo cioè in cui l’arte incontrava il concetto del sacro. Quella che operò non fu soltanto un’unificazione stilistica, ma riguardava qualcosa di più importante e di più profondo”.

Di cosa si tratta?
“Perugino trasformò anche il profano in un’occasione per rivisitare il sacro. Questo lo si vede bene nel Collegio del Cambio, dove tematiche profane e allegorie del mondo classico si saldano con quello che è stato chiamato l’umanesimo cristiano, che non rigetta il paganesimo, ma cerca di interpretarlo e di tradurlo nel Cristianesimo. Il divin pittore è uno degli esponenti più eminenti di questo filone di pensiero. La sua arte gli consente di fare questa operazione, nonostante lui non fosse un intellettuale, ma un uomo di cultura non certo eccelsa”.

Lei sta dando un’immagine di Perugino che contraddice il duro giudizio del Vasari?
Vasari non vedeva di buon occhio tutti gli artisti che non fossero nati e non si fossero completamente formati a Firenze. Questo atteggiamento ha ispirato molte delle sue biografie e non solo quelle dei pittori umbri. Voleva dimostrare che la grande arte aveva avuto come centro d’elezione la città governata dai Medici per i quali lavorava. Basti guardare come trattò Pinturicchio: lo fece letteralmente a pezzi. Nel suo giudizio c’era dunque un vizio di partenza.

Ad un certo punto però ci fu un offuscamento della fama di Pietro Vannucci?
E’ così. Questo accade però più avanti. Nel 1505, quando a Firenze Michelangelo e Leonardo si sfidavano con le battaglie sulle pareti del Salone del Cinquecento, Perugino era ancora considerato un grandissimo, un punto di riferimento. Poi la sua fama si offuscò ed è Vasari a spiegarne il perchè quando dice che iniziò a replicare se stesso, mentre le committenze chiedevano invece novità. E le trovarono nientemeno che in Raffaello, in Leonardo e in Michelangelo. Pietro Vannucci allora rientrò a Perugia, nella sua bottega di piazza del Sopramuro (ndr attuale piazza Matteotti) e lì iniziò la sua ultima fase, quella produzione tarda che una parte importante della critica ha giudicato più debole, fiacca, ripetitiva, ma che contiene spunti di poesia straordinaria. Cambiò anche il suo modo di dipingere. La pennellata che era un tempo intera, perfettamente levigata si trasformò nelle opere finali, sino ad essere giudicata da qualcuno un’anticipazione del divisionismo.

Perugino che tipo di uomo era?
Intanto era figlio di buona famiglia: i suoi genitori erano dei maggiorenti di Città della Pieve e non povera gente come sosteneva Vasari. Pur essendosi confrontato in modo profondo e originale con il sacro, era sostanzialmente un laico. Atteggiamento che diventò ancora più convinto durante la sua esperienza fiorentina nella bottega del Verrocchio. Un’ esperienza che favorì di parecchio la sua crescita.

Chi fra i più grandi artisti della bottega del Verrocchio gli fu più vicino?
Nessuno ci parla di questo. Anche se Giovanni Santi, padre di Raffaello, nei suoi scritti, lo mise accanto a Leonardo. Disse che erano par d’etade e par d’ amore. Entrambi erano molto attenti alla realtà. Leonardo la studiava anche da scienziato, e Perugino la osservava e la rappresentava in modo straordinario. Pietro Scarpellini, che ne è stato un grande studioso, diceva che “dipingeva persino l’aria”.

E il rapporto di Perugino con Signorelli, di cui nel 2023 ricorre pure il centenario della morte, quale fu?
Partirono entrambi dalla poetica di Piero della Francesca. Si incontrarono poi nella bottega del Verrocchio, ma da quell’esperienza uscirono agli antipodi. Signorelli imboccò la strada della forza espressiva, del movimento; mentre Perugino quella della misura. Un percorso che lo avvicinò a Leonardo.