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di Paolo Menichetti*

Il “Consiglio Grande” svoltosi nei giorni scorsi ha riportato l’attenzione sulla precaria situazione della sanità a Perugia ed in Umbria. Sono state poste in evidenza le serie carenze che vengono registrate dagli operatori e dai cittadini, ma, secondo me, sono mancate proposte di merito per migliorare concretamente la situazione.
Allora, quale contributo dare, sulla base di un’esperienza, la mia, -ahimè – più che cinquantennale, con più di quarant’anni nel “pubblico” e gli ultimi dieci nel privato della sanità? La cosa migliore da fare mi pare quella di individuare alcune “parole d’ordine”, sulle quali imperniare (superando i soliti slogan e le posizioni ideologiche) un’azione di revisione e rilancio della sanità perugina ed umbra, proponendo due “patti”.
La prima parola d’ordine è appropriatezza. Si tratta di fornire le prestazioni che servono, dove servono e quando servono. La scelta dell’appropriatezza può essere decisiva per affrontare realmente il nodo delle “liste d’attesa”, sempre all’ordine del giorno delle proteste dei cittadini e testimone dell’incapacità dei servizi di fornire adeguate risposte. Si tratta di abbandonare la logica della “domanda”, cioè dell’indiscriminata richiesta di prestazioni, per passare alla logica del “bisogno”, cioè dell’accertata necessità di prestazioni. E’ ampiamente documentato scientificamente che una notevole parte degli accertamenti richiesti sia impropria, cioè inutile per il caso clinico. Esiste qui una grande responsabilità dei medici, quelli di medicina generale in primis, ma anche degli specialisti; c’è, inoltre una diffusa pressione dei cittadini ad essere sottoposti ad accertamenti, anche di natura complessa, sulla spinta di un “consumismo” sanitario ingiustificato scientificamente. Occorre una grande operazione di informazione, in grado di modificare i comportamenti
individuali e collettivi, investendo nel rapporto medico/paziente. È questo il primo patto da proporre, un patto virtuoso, tra cittadini e medici, per un uso parsimonioso delle risorse, per ridurre i consumi, anche considerando che i tentativi fatti sino ad oggi (le scale di priorità) non hanno sortito gli effetti sperati.
E tale patto può basarsi proprio sul concetto di medicina attiva, da porre in essere specie per chi è affetto da patologie croniche a lungo decorso, con l’individuazione di precisi percorsi programmati di diagnosi e cura; nonché sulla logica dipartimentale, cioè sull’interazione collaborativa di più figure professionali, superando la concezione individualista del ruolo del medico, per passare a quella del fruttuoso confronto di competenze tra colleghi di diverse specialità.
Va ricordato, in proposito, che la crescita rapidissima di conoscenze scientifiche e di tecnologie in medicina rende oramai pressoché impossibile per un singolo professionista fornire risposte complete ed esaurienti al cittadino, richiedendo l’apporto contemporaneo di più competenze. La medicina attiva si impernia sui percorsi di cura per le diverse patologie; ed essi hanno l’assoluta necessità che l’organizzazione sia disegnata “a rete”, collegando i vari servizi, a partire da un rapporto tra territorio ed ospedale ancora insufficiente, se non inesistente. Occorre prevedere reti per specialità, che facciano giustizia di ogni concorrenza tra servizi e
tra professionisti, e di ogni spinta campanilistica, spesso supportata anche dalle istituzioni locali, in modo da programmare i servizi e le risposte unicamente sulla base delle reali esigenze. In proposito, le sia pur frammentarie notizie che giungono sul protocollo d’intesa tra Regione ed Università non paiono confortanti.
È ovvio che la scelta della medicina attiva comporta l’esigenza di ridisegnare l’organizzazione, ponendo in condizione i professionisti di lavorare in équipe, nella stessa sede; questo libererebbe gli assistiti dall’onere di inseguire un sistema di accesso alle prestazioni lento e scarsamente leggibile, basato su prestazioni separate e su sedi diverse di erogazione. Si dirà, ma la soluzione non sono le “Case di Comunità” e la “Casa della Salute, di cui da tempo si parla? Certo, potrebbero esserlo: ma quanti anni sono passati dalle prime positive esperienze in altre Regioni, ed anche dai programmi ufficialmente presentati, senza che ci siano stati passi avanti concreti? Bene averle inserite nella “Missione Salute del PNRR, a patto che i fondi siano ben investiti e non si riducano a meri restyling edilizi di strutture già esistenti senza alcun valore aggiunto per la sanità territoriale e la salute collettiva.
Per un uso appropriato delle prestazioni è fondamentale che vengano utilizzate tutte le risorse disponibili.
Manca un preciso censimento delle potenzialità esistenti, in grandissima parte nel settore pubblico, ma anche nel comparto privato, anche se questo in Umbria ha un’incidenza percentuale assai ridotta. Il censimento permetterebbe di attribuire, da parte dei governanti, ad ogni soggetto un ruolo definito, ponendo in campo tutto ciò che può contribuire al risultato.
Per tale censimento, è decisivo il ruolo del Comune, quale soggetto che deve essere in grado di analizzare e conoscere i bisogni dei propri cittadini, indicando alle Aziende sanitarie e ospedaliere quello che può esser definito un piano di committenza, cioè un programma di esigenze cui fare corrispondere adeguate e tempestive risposte. Alla sanità regionale, cui compete il ruolo di governo, l’importante compito di decidere l’allocazione delle risorse; alle strutture operative, pubbliche e private, la gestione dei servizi.
Ho accennato alle risorse: è vero ciò che viene da più parti affermato, in particolare dalla Conferenza delle Regioni, ma anche dalla recente autorevolissima presa di posizione, quella del Presidente della Repubblica Mattarella. Le risorse per il sistema sanitario sono insufficienti, occorre incrementare quelle ad esso destinate, non ridurle, come si prevede in maniera intollerabile nei documenti governativi di politica economica.
Senza risorse adeguate, il sistema sanitario non può reggere. Senza risorse adeguate, uno dei principali diritti costituzionali, quello alla salute, viene posto in discussione. Senza risorse adeguate, è fatale avviarsi in un percorso che discriminerà i cittadini in base al censo e alle risorse economiche a disposizione di ciascuno: si potrà curare solo chi è in condizione di spendere. Senza risorse adeguate, i medici emigrano, preferendo altri paesi. Sarebbe una vera iattura, che vanificherebbe le lotte portate avanti per ottenere il servizio sanitario universalistico, e che farebbe arretrare l’Italia di molti punti in una ideale graduatoria di Paesi per livelli di civiltà.
La seconda parola d’ordine è professionalità e competenza. È innegabile che vi sia un forte e diffuso disagio degli operatori per la tendenza a logiche di favoritismo ed anche nepotismo, praticate nel passato ed anche presenti attualmente. Occorre realmente investire sul merito, sulle competenze accertate, uscendo da una logica tendente a premiare la mediocrità fedele. È questo, ne sono convinto, il modo per porre rimedio ad un trend in netto calo della qualità della risposta in molte specialità, con un conseguente calo di fiducia nei cittadini assistiti, che sempre più spesso cercano soluzioni e risposte fuori da Perugia e dall’Umbria. Possono i governanti, la politica, rinunciare ad interferire, con logiche di appartenenza, in campi dove solo le competenze e la professionalità debbono dettare le scelte? E i professionisti, liberati da ogni improprio condizionamento e adeguatamente retribuiti, potrebbero così essere protagonisti dell’auto accreditamento professionale, cioè del giudizio critico sulle abilità, proprie e degli altri. L’organizzazione dipartimentale, e quella di rete, già ricordate, possono rendere più agevole e trasparente il confronto tra pari. La formazione continua, superando l’attuale sistema di “crediti” ottenuti a pagamento, capace solo di far proliferare e lucrare soggetti che si autodefiniscono formatori, va sostituito con un meccanismo che si basi sulle reali necessità di aggiornamento.
Ed ecco il secondo patto da proporre, dopo quello tra cittadini e medici per l’appropriatezza: quello tra la dirigenza sanitaria e gli operatori, per la competenza e la professionalità. C’è lavoro da fare, dunque! Denunce, proteste sono più che legittime. Ma la sanità perugina ed umbra meritano, anche per onorare un passato glorioso, fatto di conquiste e di livelli di eccellenza, impegno operativo e scelte rapide della politica, delle forze sociali, di tutti gli operatori, nell’interesse della salute dei nostri cittadini.
Lanciamo questa sfida alla giunta regionale, alla sua maggioranza, alle direzioni aziendali, alle forze sindacali. Certo, vi sono delle precondizioni da verificare: la visione programmatoria di ampio raggio; i valori ispiratori, quelli della solidarietà e dell’universalismo; ma soprattutto è necessaria la volontà politica. Alle forze democratiche il ruolo di pungolo e di verifica dell’azione.

*Attualmente direttore sanitario della Casa di Cura Liotti. Già direttore generale dell’Asl di Perugia e dell’Asl di Firenze, e dell’azienda ospedaliera di Ancona