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di Sud

Mezzo secolo fa un semiologo, noto tra gli intellettuali ma sconosciuto ai più, pubblicò un giallo medievale che parlava di riso e di eresie, della cultura dei “semplici” e della violenza dei “potenti” (e viceversa). Da allora su Umberto Eco si è detto di tutto. Da chi lo definì un furbo di paese che ha venduto agli americani il Colosseo, a “Le Monde”, che ha piazzato il suo libro al quattordicesimo posto tra quelli del XX secolo, prima di Lolita e dell’Ulisse, di Cent’anni di solitudine e della Montagna incantata.
Un anno prima di morire dichiarò: «Invecchiando mi sono accorto che anche io nella mia vita ho inseguito una sola idea profonda. Il problema è che non so quale. E allora scrivo per saperla». Una vita passata a scrivere: altri sei romanzi di successo (ma non al punto di vendere 60 milioni di copie) e tanta saggistica, se in questa categoria vogliamo includere anche i divertissement che sono stati una costante del suo lavoro fin dal 1963, quando pubblicò il Diario minimo.
Un piccolo gioiello, fin dalla copertina, con un Eco senza barba, camicia bianca, cravatta nera e occhiali da kennediano, che ritaglia omini di carta da un libro; con classici come la Fenomenologia di Mike Bongiorno, l’Elogio di Franti, Nonita. Il successo del libro fece nascere nel 1986 La bustina di Minerva dell’Espresso, una delle quali è dedicata al caffè, la bevanda preferita di Eco, insieme al whisky torbato. «Ci sono diversi modi di fare un buon caffè: c’è il caffè alla napoletana, il caffè espresso, il caffè turco, il cafesinho brasiliano, il caffè filtré francese, il caffè americano», e poi c’è il «caffè sbobba», «composto di orzo andato a male, ossa di morto, e chicchi di vero caffè recuperati tra i rifiuti di un dispensario celtico. È riconoscibile per l’inconfondibile aroma di piedi marinati in risciacquatura di piatti. Esso viene servito nelle carceri, nei riformatori, nei vagoni letto e negli alberghi di lusso».