Da Romeyne Ranieri a Luisa Spagnoli sino a Maria Grazia Lungarotti. I ruoli politici
E’ questa l’ultima puntata della storia dell’emancipazione delle donne umbre. Una ricostruzione che ci fa meglio comprendere le ragioni che hanno portato di recente il potere politico e non solo a colorarsi di rosa.
di Antonella Valoroso
Il Novecento umbro è senza dubbio il secolo in cui le donne conquistano progressivamente visibilità e influenza nello spazio pubblico, dal mondo del lavoro e delle professioni all’impegno civile e politico. Una delle principali novità è che a emergere non sono più soltanto le aristocratiche come Romeyne Robert Ranieri di Sorbello (1877-1951), ma anche le donne del popolo, tra cui spicca Luisa Sargentini Spagnoli (1877-1935), figura femminile tra le più influenti del primo Novecento e autentica pioniera delle manager italiane.
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Romeyne Robert e Luisa Spagnoli, nate nello stesso anno ma con background sociali e culturali profondamente diversi, condividono la consapevolezza che l’emancipazione femminile passa attraverso l’indipendenza economica e che la conciliazione tra impegni familiari e lavorativi è una sfida cruciale.
La scuola di ricamo fondata da Romeyne Robert nel 1904 nella tenuta di famiglia del Pischiello, vicino a Passignano sul Trasimeno, rappresenta il punto di partenza di una rete che distribuisce le creazioni delle donne umbre sul mercato nazionale e internazionale, con particolare successo negli Stati Uniti. Insieme alla scuola di ricamo, che rimase attiva fino al 1934, Romeyne promosse l’apertura di una scuola elementare rurale all’avanguardia, ispirata al metodo Montessori, per garantire un’istruzione adeguata ai figli delle ricamatrici e ai bambini della comunità locale.
A questo proposito non è superfluo ricordare che è proprio in Umbria, nell’estate del 1909, che Maria Montessori mise per iscritto e pubblicò per la prima volta le sue teorie sull’educazione grazie al sostegno di Alice e Leopoldo Franchetti che accolsero la pedagogista nella loro residenza di Villa Montesca.
Oltre a preoccuparsi dell’istruzione dei loro figli, Romeyne incoraggiava le ricamatrici ad aprire libretti di risparmio personali per gestire autonomamente i loro guadagni. Un gesto rivoluzionario se consideriamo che fino al 1975 una donna sposata in Italia non poteva aprire un conto in banca senza il consenso del marito e che ancora oggi una donna su cinque non ha alcun conto corrente.
Priva delle risorse economiche e dell’istruzione di Romeyne Robert, Luisa Sargentini Spagnoli si affermò grazie a un talento imprenditoriale straordinario che la rese una figura chiave nella fondazione di due aziende destinate a segnare la storia del made in Italy: la Perugina e la Spagnoli. Celebre è il discorso che rivolse alle operaie della sua fabbrica nel 1915, l’anno che segna a un tempo l’ingresso in guerra dell’Italia e l’inizio di una straordinaria accelerazione nel campo dell’emancipazione femminile: «Io lo so che cosa vuol dire essere madre, moglie e dover lavorare, e proprio perché lo so ho deciso che noi ci organizzeremo diversamente da come si è sempre fatto. D’ora in poi chi ha figli piccoli potrà affidarli a una sorvegliante che li farà giocare qui in fabbrica. Per i neonati invece ci sarà una stanza dove potranno dormire tutti insieme e quando sarà il momento della poppata le mamme saranno avvertite subito per telefono e potranno lasciare immediatamente il posto di lavoro; ma soprattutto il tempo che dedicherete all’allattamento vi verrà retribuito». Nasceva così la prima sala di allattamento aziendale della storia. E accanto a questa anche uno spaccio interno per consentire alle operaie di fare la spesa prima del rientro a casa.
Sia Romeyne Robert che Luisa Spagnoli promossero inoltre la formazione delle loro lavoratrici, fornendo loro nozioni pratiche su igiene, nutrizione e cura dei figli.
È anche grazie a esperienze come queste che si mette in moto un processo virtuoso attraverso il quale si diffondono saperi, mentalità e buone pratiche destinate a produrre effetti significativi nel nostro presente: l’Umbria si colloca infatti attualmente al 4° posto in Italia per il tasso di imprenditoria femminile con ben 23.000 aziende guidate da donne – pari al 24,8% del totale delle imprese presenti nel territorio regionale – con un tasso di occupazione femminile del 63,8%, ben dieci punti percentuali in più rispetto alla media nazionale che si attesta al 53,6%.
Durante gli anni bui della dittatura fascista e della Seconda Guerra Mondiale, molte donne umbre si distinsero per il loro coraggio e la loro determinazione nella lotta partigiana. Non furono soltanto combattenti in armi, ma anche messaggere, informatrici, staffette, infermiere, trasportatrici e organizzatrici. Nei dieci mesi di occupazione nazi-fascista, l’Umbria vide infatti una straordinaria partecipazione femminile nei ruoli più disparati. A differenza degli uomini, spesso obbligati a scegliere da che parte stare per ragioni militari, le donne che parteciparono alla Resistenza lo fecero con coraggio e convinzione, diventando, come affermò la partigiana ligure e umbra d’adozione Mirella Alloisio, “volontarie della libertà”. Fu una vera e propria “rivoluzione sociale”, caratterizzata dall’emergere di un nuovo protagonismo femminile. Le donne affrontarono compiti rischiosi, presero decisioni in piena autonomia e assunsero nuove responsabilità, rompendo gli schemi socio-culturali che le relegavano al ruolo di madri e mogli. Alcune di loro persero la vita, come le eugubine Zelinda e Miranda Ghigi, vittime della rappresaglia tedesca che il 22 giugno del 1944 trucidò quelli che sarebbero passati alla storia come i quaranta martiri di Gubbio. Altre, come Giorgina Formica, subirono la brutalità dei fascisti nel carcere femminile di Perugia, tristemente noto per aver ospitato numerose partigiane. Tenuta a lungo in isolamento, Giorgina Formica affrontò con audacia e irriverenza gli interrogatori e le minacce di fucilazione. Sopportò il dolore della tortura senza rivelare informazioni sui luoghi e sui partecipanti alla Resistenza umbra e anche in carcere riuscì ad organizzare una specie di “resistenza”, rifiutandosi di rammendare le tende dei tedeschi e convincendo le altre detenute a fare lo stesso. Altre ancora passarono dalla militanza nella Resistenza all’impegno politico, come accadde a Fernanda Maretici che, candidata alle elezioni del 7 aprile 1946 nella lista del Partito Comunista Italiano, fu la prima donna a essere eletta nel Consiglio comunale di Perugia e dal maggio 1952 al novembre 1960 fu Assessora all’istruzione del Comune di Perugia. A cinquant’anni di distanza avrebbe ricordato con queste parole la stagione di grande impegno in cui l’Umbria e l’Italia si rialzarono dalle macerie della guerra: «Abbiamo fatto piccole scuole, abbiamo portato il primo latte, la prima marmellata nelle scuole di campagna, abbiamo portato le scarpe ai bambini che ancora andavano con gli zoccoli, al punto che una che aveva avuto due scarpe destre non voleva restituircene una perché aveva paura che poi non gliele riportassimo».
Le elezioni amministrative del 1946 furono le prime in cui le donne esercitarono il diritto di voto attivo e passivo. A candidarsi nelle liste nella nascente Repubblica in tutta Italia furono circa duemila, molte di loro vennero elette nei consigli comunali ma soltanto dieci diventarono Sindache. Tra queste c’era anche Elsa Damiani Prampolini, che fu sindaca di Spello dal 1946 al 1960, per ben tre legislature consecutive. Inizialmente candidata come indipendente nelle liste del PCI, si iscrisse successivamente al partito e non esitò a denunciare apertamente la discriminazione che le donne subivano nel mondo della politica attraverso il periodico della sezione enti locali del PCI: L’Amministratore democratico. «Che importa – scriveva nel marzo del 1948 – che in qualunque ufficio mi presenti sia accolta in quanto sindaco donna, con molta cortesia, referenza e ogni sorta di gentilezza, quando so che l’insidia mi sta alle spalle? Che il primo cafone ricco che si presenta dopo di me, ha il sicuro sopravvento e che io non riesco a fare per i miei amministrati quanto vorrei?». Parole dure che esprimono con forza la frustrazione di un’intera generazione di donne che, con fatica e dignità, in una società profondamente maschilista, furono capaci di aprire la strada a quante sarebbero venute dopo.
Nella seconda metà del secolo, anche grazie alle fondamentali riforme degli anni Settanta, il cammino delle donne procederà con passo più spedito. E le umbre – per nascita o per elezione – che si distingueranno nella politica, nell’imprenditoria, nella capacità di osare per realizzare i propri progetti saranno sempre più numerose. I nomi e le storie da fare sarebbero ancora tanti, ma a concludere questo viaggio tra le donne che hanno fatto e continuano a fare la storia dell’Umbria saranno due le figure molto diverse fra loro, ma accomunate dalla capacità di immaginare e realizzare quello che ancora non esisteva.
La prima è Maria Concetta Micheli, toscana di nascita ma umbra d’adozione, la prima donna italiana a conseguire, nel 1971, il brevetto di pilota di elicottero, punto di partenza di una carriera strepitosa nel corso della quale la «ragazza che parlava all’elicottero» riceverà premi e riconoscimenti nazionali e internazionali.
La seconda è Maria Grazia Marchetti Lungarotti, storica dell’arte e archivista che ha svolto un ruolo di rilievo nella valorizzazione del patrimonio culturale e agricolo e può a tutti gli effetti essere considerata l’inventrice dell’enoturismo. Nei primi anni Settanta fonda infatti a Torgiano il Museo del Vino, avviando la creazione di un polo innovativo per contenuti e criteri museografici. Questo percorso si è poi ulteriormente arricchito con l’apertura del Museo dell’Olivo e dell’Olio e con la costituzione, nel 1987, della Fondazione Lungarotti che, sotto la sua direzione, continua a promuovere la cultura legata alla viticoltura e all’olivicoltura. Per il suo contributo alla cultura italiana, nel 2011 Maria Grazia Lungarotti ha ricevuto il titolo di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.