di Lucio Caporizzi
Il 15 dicembre scorso, come di consueto, Banca d’Italia ha presentato presso il Dipartimento di Economia di Perugia il proprio rapporto sull’Umbria, intitolato “L’economia umbra durante le crisi”. Già, perché ormai occorre usare il plurale, visto che si passa da una crisi all’altra e che crisi! Nel giro di una dozzina d’anni abbiamo avuto la più grave crisi finanziaria ed economica dal 1929, la più grave pandemia degli ultimi 100 anni e il ritorno della guerra in Europa dopo oltre 75 anni. Dunque, come è andata l’Umbria nelle crisi?
I dati ed i grafici presentati coprono un arco di 20 anni, a partire dal 2000. Abbiamo quindi un’analisi di taglio strutturale, tesa a descrivere gli andamenti di lungo periodo dell’economia regionale, ben diversa, quindi, dagli andamenti di brevissimo periodo che tanto appassionano chi governa come pure chi è all’opposizione, sempre pronti a vantarsi di un dato trimestrale positivo, i primi, o a criticare per un corrispondente dato negativo, i secondi.
Il quadro che ne emerge conferma il declino dell’economia regionale, che appare ancor più marcato se la comparazione viene svolta non con gli analoghi dati nazionali ma con quelli rilevati a livello europeo.
Il Pil pro/capite umbro, fatto pari a 100 il dato europeo nel 2000, era in quell’anno pari a 119, per crollare fino a 84 20 anni dopo. Tra le componenti del Pil, è la produttività del lavoro la causa principale del calo; mentre valori quali il tasso di occupazione, infatti, hanno presentato anche andamenti positivi per l’Umbria, la produttività del lavoro è sempre in territorio negativo e rappresenta il vero problema per lo sviluppo della regione.
A sua volta la bassa produttività deriva anche dalla scarsa propensione ad innovare e dall’insufficiente utilizzo delle tecnologie digitali.
La scarsa produttività e la debole capacità innovativa si riflette nel livello e nella composizione degli investimenti: il livello ha mostrato una riduzione anche più marcata del Pil, tanto che nel 2019 essi risultavano inferiori del 27% rispetto al periodo pre-crisi, mentre come composizione risultano poco significativi gli investimenti industriali in settori ad alta tecnologia ed ancor meno nei servizi ad alta conoscenza.
Pur mostrando una certa crescita, il contributo dell’export al Pil regionale raggiunge a stento il 20%, valore ancora molto inferiore a quello medio nazionale, a dimostrazione di un sistema produttivo ancora troppo orientato al mercato nazionale o, addirittura, locale.
Il saldo demografico, che mostrava un andamento positivo fino ai primi anni dello scorso decennio, ha poi decisamente cambiato rotta, con una progressiva perdita di popolazione dovuta ad un saldo naturale negativo, non più compensato dai flussi migratori in entrata, recentemente affievolitisi. Preoccupante il saldo tra entrate ed uscite dei laureati sotto i 44 anni, che entra in territorio negativo anch’esso, con le uscite che arrivano a superare le entrate di circa 200 unità annue.
Sono sempre più i giovani qualificati che cercano altrove i riconoscimenti e le soddisfazioni professionali che non riescono a trovare in Umbria.
Notizie positive dal turismo, che mostra segni di vivacità dopo la gelata dovuta ai lockdown, ma con livelli di spesa unitaria ancora bassi. Il gradimento dei turisti stranieri si colloca per tutte le componenti (arte, ambiente, gastronomia, cortesia, prezzi, etc..) su livelli superiori rispetto all’Italia. Il quadro sopra accennato non si discosta granchè dalle analisi presentate dalla stessa Banca d’Italia negli anni passati, come pure da quelle contenute nei documenti di programmazione della Regione Umbria.
Ma a questa conoscenza si è accompagnata una egual consapevolezza da parte dei policy maker e, quindi, i conseguenti, opportuni adattamenti della strumentazione delle politiche di sviluppo?
Chi scrive ha avuto per anni un certo ruolo nella definizione delle politiche regionali, seppur a livello tecnico e, quindi, non decisionale. Questo non per accampare scuse, ma per dire che scrivo di cose direttamente conosciute.
Inoltre, si sa bene che il guardarsi indietro, il valutare quanto ottenuto, il tirare le somme della propria azione amministrativa, tutto ciò non è in genere molto gradito ai nostri politici, un po’ dappertutto, nel Paese. Se qualcuno si sofferma su ciò che si è – o non si è – ottenuto dall’attuazione di determinate misure, il commento prevalente di chi governa è che preferisce guardare avanti, come a dire che su ciò che si è ottenuto finora si può anche glissare.
Quando, poi, vi sono cambi di governo, chi è appena arrivato si guarda indietro, sì, ma non tanto per valutare e trarre lezione da quanto realizzato nel passato, quanto per sostenere che i deboli risultati sono in gran parte colpa di chi governava prima, che non ci aveva capito granché, ma ora le cose andranno meglio, perché ci siamo noi.
Quella sopra tratteggiata è una esemplificazione, certo, ma che non credo vada molto lontano dalla realtà. Il risultato è, operazioni di cosmesi a parte, una sorta di coazione a ripetere. Fermo restando che tutti sono d’accordo sulla necessità di incentivare l’innovazione, favorire l’aumento di produttività, promuovere l’internazionalizzazione, non ci si interroga, però, sulla reale efficacia degli strumenti usati per perseguire tali obiettivi, strumenti che, quindi, sono poi più o meno sempre gli stessi.
A titolo di esempio, l’usatissimo strumento dei contributi alla spesa per investimenti a favore delle imprese è stato oggetto di varie valutazioni di efficacia, anche con il metodo controfattuale, che è considerato uno dei migliori. Tali valutazioni mostrano un’efficacia spesso limitata di tale strumento nel determinare un reale effetto incentivante nei confronti dei soggetti riceventi il contributo. In particolare per promuovere l’innovazione, i contributi alla spesa andrebbero quanto meno accompagnati da misure più “ambiziose”, tese alla creazione di ambienti favorevoli alla ricerca e sviluppo, come i Centri di competenza. Misure certamente più difficili da attuare rispetto ad un bando che distribuisce aiuti e, anche, più “rischiose”.
Quindi meglio continuare con i contributi che, oltretutto, hanno il vantaggio di risultare graditi a coloro che li ricevono!