di Giuseppe Grattacaso
Gigi Riva era un supereroe. Di quelli che hanno superpoteri, da usare in determinate circostanze, ma che passano la vita normale come gli altri umani ‒ non superumani ‒ a districarsi con le difficoltà del vivere. Quelli che durante la giornata fanno cose comuni e lottano con la propria timidezza e con una tristezza di fondo, che viene da lontano, dagli anni dell’infanzia, gli anni che dovrebbero essere felici. I supereroi non possono cancellare la propria infelicità, che certe volte li aggredisce e gli toglie il fiato. Hanno una missione da compiere nei confronti dell’umanità, che poi siamo tutti noi, un dovere da svolgere, che loro, i supereroi, affrontano con grande senso di responsabilità e un minimo di insofferenza.
Gigi Riva era un supereroe. Come l’Uomo Ragno, che in effetti si chiamava Peter Parker, Riva era orfano. Aveva perso il padre, quando era ancora bambino, per un incidente sul lavoro, la madre, qualche anno dopo, quando lui era adolescente. Sono cose che ti segnano a vita, ti fanno essere solo per sempre, anche quando sei insieme agli altri, ai compagni di squadra ad esempio, perché ti senti un po’ separato da una parte di te, un estraneo, almeno a tratti, per te e per chi ti è accanto. Sono assenze che non si cancellano, che generano una condizione da esilio permanente. Sempre un poco infelice era Gigi Riva, ma aveva i superpoteri.
Forse per questo Gianni Brera l’aveva chiamato Rombo di Tuono, un nome da divinità pagana, da capo pellerossa o, appunto, da supereroe. Noi della generazione successiva, di venti anni più giovane, sapevamo bene che aveva i superpoteri: lo vedevamo calciare verso la porta con una potenza senza pari, alzarsi in aria con straordinaria leggerezza e superiore eleganza e sforbiciare in rovesciata, correre con improvvisa rapidità, scartare gli umani avversari, che sembrava potessero solo guardarlo, come fossero semafori puntati sul verde. “Mai vista una roba del genere” sentenziò una volta Dino Zoff, uno che di parole ne usava una decina per un’intera giornata, ma suonavano spesso come definitive.
Parlava poco anche Gigi Riva. Una volta dopo una partita a Genova lo avevano portato a casa di Fabrizio De Andrè. Si erano salutati e poi non sapevano più che dirsi. Un’ora di silenzio. Qualche sigaretta, un bicchiere di whisky e poi finalmente un po’ di chiacchiere.
Fumare (parecchio) e bere whisky (poco) e segnare 35 gol in 42 partite in nazionale, e vincere lo scudetto con il Cagliari (allenatore Manlio Scopigno, detto il Filosofo, altro che superpoteri) e diventare il più forte attaccante italiano di sempre, una cosa mai vista appunto, nemmeno in quei tempi in cui i calciatori non si monitoravano passo dopo passo, allenamento e partita, come fossero aspiranti astronauti. Lui poteva, era fatto così, aveva i superpoteri, quando era sul terreno di gioco era Rombo di Tuono. Poi, consegnata al magazziniere la maglia bianca del Cagliari con i risvolti rossoblù e lo stemma con le teste di moro bendate, o la maglia azzurra della nazionale, intanto per gli altri diventate pesantissime perché intrise di sudore o di pioggia, Gigi Riva tornava a essere Gigi Riva, lo sguardo triste, evitava i giornalisti, si ricordava che da ragazzo era stato in collegio dai preti e che non gli era piaciuto per niente quel posto, nemmeno i preti. A Gianni Mura, che era andato a trovarlo in ospedale dopo che per la prima volta si era rotto una gamba (allora la sinistra), disse “Vuoi un’ntervista? Va bene. Ti costerà un paio di sigarette, perché qui oltre al gesso non mi lasciano fumare”. Non amava i giornalisti Gigi Riva, li faceva aspettare per ore e poi li evitava. Non amava le loro domande. Allo stesso Mura che una volta gli aveva chiesto a chi volesse dedicare i suoi gol, rispose: “Cosa vuoi che ti dica? Che dedico il gol alla Sardegna, o all’Italia se gioco in Nazionale? Ma non facciamo ridere. Io non ho nessuno a cui dedicare nulla. Segno per dovere”. Per dovere. È per dovere appunto che agiscono i supereroi. Per salvarci, per rendere meno triste l’umanità. Gigi Riva era sardo, ma era nato a Leggiuno, sul lago Maggiore, che non è propriamente in Sardegna. Sardo era sempre stato, anche quando sgambettava agli esordi nel Legnano in serie C. Nel Cagliari ha giocato dal 1963 (era nato nel ‘44), terminando la carriera con la stessa squadra nel 1977. Con il Cagliari ha segnato 208 reti in 378 partite. L’avvocato Agnelli lo avrebbe voluto nella Juventus. Pare avesse offerto allora un miliardo di lire. Ma i supereroi sanno che cambiando ambiente potrebbero non sentire più il dovere della missione e perdere i loro superpoteri. Anni dopo i suoi rifiuti alla Juventus e ad altre squadre blasonate del Nord, disse di non aver lasciato il Cagliari “per orgoglio”: “sono convinto di aver fatto bene. La Sardegna mi ha dato affetto e continua a darmene. La gente mi è vicino come se ancora andassi in campo a fare gol. E questa per me è una bella cosa, non ha prezzo”. In Sardegna ha vissuto fino alla morte, avvenuta ieri, 22 gennaio 2024.