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Nell’ottobre di dieci anni fa moriva Gian Lupo Osti. In questo decimo anniversario pubblichiamo un articolo sulla sua carriera di grande manager pubblico, con particolare riferimento alla società Terni, dove fu direttore generale e amministratore delegato. Ebbe un ruolo importante non solo come capitano d’industria, malamente liquidato per ragioni politiche, ma anche come uno degli artefici di una vivace primavera culturale che la città di Terni visse negli anni Settanta.

di Ruggero Ranieri

Il mio primo incontro con Gian Lupo Osti risale al 1991. Nel 1993 uscì il volume di Gian Lupo Osti pubblicato da Il Mulino, L’industria di Stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider, Conversazioni con Ruggero Ranieri, frutto di un’intensa collaborazione. Ne vorrei raccontare brevemente la genesi.
Venni contattato da un collega ed amico, il professor Franco Amatori, che mi segnalò la disponibilità di un grande manager della Finsider a raccontare la sua storia. In quel periodo avevo iniziato la mia carriera accademica alla London School of Economics, dopo aver completato una tesi di dottorato sul ruolo dell’Italia nella creazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Fui molto contento di questo invito proprio perché si trattava di un argomento sul quale avevo studiato a lungo. Non mi ricordo esattamente dove avvenne il primo incontro con Gian Lupo Osti, forse nella sua casa di Bolsena. Quello che ricordo è che fu il primo di una serie di incontri molto intensi che si susseguirono per molti mesi, sia in Italia, sia in Inghilterra. Mi ricordo in particolare una visita del Dott. Osti a Londra, a margine di un suo viaggio di esplorazione botanica; lo andai a trovare in un bell’albergo vicino a Piccadilly Circus e lavorammo per molte ore. Raccoglievo il suo racconto con un registratore, poi lo sbobinavo, lo mettevo a punto e glielo rimandavo. In questo modo ci furono molti scambi attraverso posta ed email, uno strumento che allora cominciava a diffondersi.
Ripensandoci ora dopo 30 anni posso dire che non ci fu certo bisogno da parte mia di particolari insistenze, in quanto il racconto che Osti voleva trasmettere era praticamente quasi compiuto nella sua mente. Il mio ruolo fu solo di aiutarlo nella sua stesura, magari con qualche domanda di chiarimento, ma il centro della sua argomentazione era già più che formato.
Cosa era successo? Osti era stato malamente allontanato dalla dirigenza della Finsider, dopo una vicenda complessa e tortuosa a cui accennerò più avanti. Pieno di amarezza, ancora relativamente giovane si era ritirato nel silenzio. Per più di 10 anni aveva dirottato i suoi interessi in un campo completamente diverso, quello della ricerca e della esplorazione botanica, tenendosi dentro tutta la sua disillusione. Finalmente aveva poi trovato la forza di trasmettere la sua testimonianza. Devo dire che rileggendolo a distanza di 30 anni si tratta di un testo molto lucido, penetrante, rivelatore, che porta il lettore attraverso l’epopea e il dramma di quello che sono state prima la ricostruzione italiana dopo la guerra, poi la grande crescita economica e infine il declino e la crisi. Un’analisi forte, per certi aspetti anche spietata, che ha fatto sì che il libro fosse letto e riletto dagli studiosi negli anni successivi.
In questo mio breve intervento vorrei prima dare un breve profilo biografico di Gian Lupo Osti, poi concentrare l’attenzione sulla sua esperienza a Terni che fu, per certi aspetti, quella più difficile e drammatica e concludere con qualche osservazione personale: cos’è stato per me l’incontro con Osti.
Nato nel 1920, dopo gli studi liceali a Roma, si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza della Sapienza. Fu ufficiale dell’esercito italiano dal luglio 1940 fino all’armistizio, sul fronte greco albanese e poi ad Atene come delegato alla commissione economica italo-tedesca. Avendo rifiutato di collaborare con i tedeschi, fu fatto prigioniero e trasferito in Germania, come internato militare italiano. Alla resa del Reich si trovava nel campo di Gross Hesepe, nella Germania settentrionale. Al rientro in Italia completò gli studi, laureandosi nel 1946 e subito dopo iniziò la sua carriera come consulente economico al Comitato interministeriale per la ricostruzione (CIR).
Nel 1947 fu chiamato in Finsider – Società Finanziaria Siderurgica del gruppo IRI – come assistente personale del presidente, Oscar Sinigaglia, il quale, poco dopo, gli affidò il nuovo ufficio di New York e l’incarico di seguire le trattative con l’amministrazione degli Stati Uniti per i prestiti del Piano Marshall. Questi prestiti furono un tassello chiave per la realizzazione del cosiddetto Piano Sinigaglia, un programma di riconversione dell’industria siderurgica italiana, centrato sull’ammodernamento di tre grandi centri costieri a ciclo integrale: Bagnoli, Piombino e Cornigliano.
La lezione di Oscar Sinigaglia fu centrale nella formazione di Osti che, a contatto stretto con la realtà industriale americana, approfondì, in particolare, gli aspetti relativi all’organizzazione aziendale, alle relazioni industriali, alla comunicazione esterna, al concetto stesso di impresa. Dal 1951 si trasferì a Milano, presso la Segreteria commerciale della Dalmine, una delle più importanti aziende Finsider, dove rimase sino alla fine del 1954; dal gennaio 1955, infatti, fu chiamato alla Cornigliano di Genova. Nel frattempo, il 24 ottobre 1953, aveva sposato Mariagrazia Zanelli Quarantini dalla quale ebbe cinque figli: Annibale, Orso, Caterina, Cristoforo, Mattia.
La Cornigliano s.p.a. – separata dall’Ilva e costituita in azienda autonoma nel 1951 – si era imposta come uno dei complessi produttivi meglio organizzati d’Europa. Era il fiore all’occhiello della ricostruzione impostata da Oscar Sinigaglia. Nel 1958, in decisa espansione, dava lavoro a 6000 dipendenti. All’arrivo di Osti, i nuovi impianti erano appena partiti; Sinigaglia era morto da poco più di un anno e il gruppo dirigente Finsider era guidato dal suo vice, Ernesto Manuelli. Direttore generale era allora Mario Marchesi, ingegnere di grandi capacità coadiuvato da Enrico Redaelli Spreafico, direttore amministrativo, e Osvaldo Bianchini, direttore tecnico.
Questi uomini, Manuelli, Marchesi, Redaelli Spreafico, formarono il gruppo di punta della siderurgia pubblica italiana del dopoguerra. Osti a Cornigliano ricopriva la carica di Segretario Generale, una posizione molto importante che gli dava il controllo dell’organizzazione aziendale. Operò in piena sintonia con gli altri dirigenti per fare di Cornigliano una azienda pilota, adattando al contesto italiano le più importanti innovazioni della pratica industriale statunitense. Erano tutti concordi, infatti, «nel ritenere che il modello americano non era soltanto il migliore dal punto di vista tecnologico e sociale. Eravamo convinti che l’organizzazione produttiva USA fosse non solo più efficiente, ma anche più democratica e partecipativa».
Nel 1961, in pieno ‘miracolo economico’, con la Finsider che inseguiva traguardi produttivi sempre più ambiziosi (nel 1961 furono prodotti 5 milioni di tonnellate di acciaio; 7,5 nel 1965), Ilva e Cornigliano si fusero dando vita all’Italsider. Vi confluirono tutti i grandi centri costieri a ciclo integrale, compreso quello di Taranto, la cui costruzione era stata decisa nel 1959. In questo passaggio Osti svolse un ruolo chiave: come vicedirettore generale Italsider ebbe l’incarico di esportare i modelli organizzativi e di relazioni industriali di Cornigliano agli altri stabilimenti. Poco dopo, nel 1962, fu promosso Direttore Generale Italsider.
L’Italsider, con 38.000 dipendenti nel 1963, era un vero colosso; non solo occupava all’interno della Finsider un ruolo preminente, ma era anche l’azienda più grande dell’IRI. Alla sua concezione avevano lavorato soprattutto Osti e Marchesi, traendo insegnamento dalle grandi corporations americane, in particolare dalla US Steel, nell’obiettivo di creare una sola grande azienda produttiva. In questa fase Osti svolse, di nuovo, un ruolo di punta: sulle strategie aziendali, organizzative e di rapporti esterni fu il consigliere privilegiato del presidente Marchesi. Tenne rapporti con politici e sindacalisti, operò nella pianificazione dello stabilimento di Taranto, promosse iniziative culturali all’interno e all’esterno delle fabbriche.
Di convinzioni e simpatie laiche e di sinistra, si avvicinò in questo periodo al PSI di Pietro Nenni, da cui fu candidato nel 1964, senza successo, alla Direzione generale dell’IRI. Nel febbraio 1965, in polemica con la dirigenza Finsider – dove era cresciuta l’influenza di Alberto Capanna – e con l’IRI di Giuseppe Petrilli e di Leopoldo Medugno, inseriti nel sistema di potere DC, che ostacolavano il processo di riforma e l’autonomia dell’Italsider, accettò di lasciare Genova e di andare alla società Terni come direttore generale. Dal 1972 assunse anche il ruolo di amministratore delegato della Terni.
L’arrivo di Osti alla Terni fu, quindi, fin dall’inizio, una sorta di esilio. Osti era stato dirigente di punta dell’Italsider e, per la sua età e la sua esperienza, avrebbe potuto ambire alle cariche più elevate. Tuttavia, una frattura nel mondo della siderurgia IRI e i grandi progetti che erano stati impostati si incagliarono in molte resistenze di carattere politico e personale.
La Terni affiancava all’epoca impianti nuovissimi e altri obsoleti. Bisogna ricordare che era nata come una delle migliori acciaierie belliche italiane. Dopo la seconda guerra mondiale si era posto il problema di riconvertire le sue produzioni dagli impieghi bellici a quelli civili, processo non facile che aveva portato a una stagione drammatica di licenziamenti. Un’altra caratteristica della Terni, a partire dal 1920, era di essere una società polisettoriale, fatta cioè di molti settori diversi fra loro, anche se parzialmente integrati: c’era infatti la Terni siderurgica, la Terni elettrochimica, le miniere di lignite e soprattutto la Terni elettrica. Quest’ultima era la più importante in quanto generava i profitti che coprivano le perdite degli altri settori.
All’inizio degli anni sessanta vi fu un mutamento radicale. Per quale ragione? I primi governi di centro sinistra avevano deciso di nazionalizzare l’industria elettrica, accorpandola in un’unica società nazionale, l’ENEL. In realtà, la Terni avrebbe potuto mantenere il suo sistema elettrico, come molte altre aziende, registrandosi nella categoria degli auto produttori. La politica, però, decise diversamente e il sistema elettrico ternano confluì interamente nell’ENEL. A catena ne discese che anche le altre parti dell’azienda, in particolare la chimica, si autonomizzarono e la Terni rimase sostanzialmente un’azienda siderurgica. All’arrivo di Osti a Terni nel 1965 era ancora aperta la questione degli indennizzi: in particolare, a fronte della cessione degli impianti elettrici, alla Terni sarebbe dovuto andare un pacchetto consistente di miliardi. Anche qui, però, le speranze andarono deluse, in quanto gli indennizzi furono intascati non dalla società Terni ma dalla Finsider che li dirottò su Taranto. Occorreva, quindi, rilanciare su nuove basi un’azienda siderurgica disabituata a stare sul mercato, senza le risorse finanziarie che sarebbero state necessarie.
Questa dunque la sfida di Osti, il quale retrospettivamente avrebbe osservato come più che un incarico quello che gli era stato conferito era una trappola. Infatti, lo metteva nelle condizioni di essere totalmente dipendente per le risorse dalle gerarchie IRI e Finsider, con le quali si trovava già in conflitto.
Manager di indiscusso talento, uomo ambizioso e ottimista, Osti tentò comunque di vincere la sfida. Cercò inizialmente di integrare la Terni nel sistema Italsider, facendone un grande centro di investimento di coils affiancato ai centri già esistenti. Questa soluzione, però, presupponeva una collaborazione con l’IRI-Finsider, che non ci fu. Tentò, quindi, una via diversa: fare di Terni un grande autonomo centro produttivo di acciaio, di lavorazioni speciali (in particolare vessel per l’industria nucleare), di prodotti finiti, speciali e commerciali compresi i tondini per cemento armato.
Bisogna sottolineare a questo punto come fin dal 1960 a Terni erano stati introdotti impianti per la lavorazione di acciai inossidabili e magnetici. In prospettiva questa si sarebbe rivelata una scelta lungimirante, in quanto queste due qualità di acciai erano destinate ad affermarsi gradualmente nei mercati. In quei primi anni, però, la domanda era molto ridotta, cosicché produrli nelle quantità richieste non bastava assolutamente a far girare gli impianti della Terni. Occorreva, quindi, produrre insieme anche molti altri tipi di acciai.
Osti si trovò di fronte una grande azienda siderurgica, con la particolarità di avere importanti settori di siderurgia meccanica (getti, fucinati, condotte forzate ecc.) che, però, era difficilissimo vendere per trarne fuori degli utili. Si trattava, quindi, di investire ancora, per esempio per produrre prodotti per l’edilizia che avrebbero potuto da una parte far marciare a pieno ritmo gli impianti sfruttandone le capacità e dall’altra generare profitti. Per farlo ci volevano tanti soldi che l’azienda doveva prendere in prestito dalle banche, in quanto non aveva una base adeguata di capitalizzazione.
L’alternativa sarebbe stata di ridimensionare drasticamente gli impianti con la perdita di migliaia di posti di lavoro e la fine della grande tradizione siderurgica ternana. Questa soluzione era avversata da tutta la città di Terni, sindacati, partiti, istituzioni, e sarebbe stata difficilissima da praticare. Osti si schierò decisamente dalla parte della città e iniziò, già dal 1970, un nuovo ciclo di investimenti. Questa strategia, però, si scontrò con il deteriorarsi della congiuntura economica generale nel 1974-75, con gravi ritardi nell’allestimento della colata continua necessaria alla produzione di tondino e finì per generare perdite cospicue.
Nel giugno 1975, il comitato di presidenza dell’IRI decise la destituzione immediata di Osti, imputandogli la responsabilità dei risultati economici negativi. Questa chiaramente era una forzatura, in quanto moltissime aziende IRI si trovavano in condizioni analoghe e, comunque non teneva conto delle difficoltà strutturali della Terni. Si concludeva, in questo modo il lungo braccio di ferro fra Osti e l’establishment siderurgico IRI-Finsider, dove un ruolo importante fu assunto da Alberto Capanna, che di Osti era stato il principale avversario. C’era anche un sottofondo politico: Osti in quegli anni aveva lavorato a stretto contatto con il PSI sia nazionale, sia ternano, sfidando l’egemonia della DC nell’IRI. La sua defenestrazione fu anche segno della sconfitta del partito socialista.
Questa, a grandi linee, è la storia della gestione Osti alla Terni. Dopo la sua partenza non ci fu alcun cambiamento di rotta. Le strategie aziendali rimasero più o meno le stesse, le perdite semmai peggiorarono, nonostante arrivassero un po’ di quei capitali che Osti aveva invano chiesto. Dopo molti anni gradualmente si accrebbe l’importanza delle produzioni di inox e magnetico, intorno a cui la Terni riuscì a sopravvivere alla grande crisi della fine degli anni 80.
Osti raccontò con amarezza la sua vicenda ma anche con un’impressionante lucidità. Parlò meno di altri aspetti legati alla sua presenza a Terni, che invece gli fanno onore e che ho potuto ricostruire da altre testimonianze e dall’esame di molti documenti. Egli infatti, operò un’importante modernizzazione della vita della società, estendendo alla Terni il modello già sperimentato a Cornigliano e all’Italsider. Una delle sue prime iniziative fu quella di aprire una biblioteca e un circolo per lavoratori, proprio qui nei locali della Biblioteca CLT dove ci troviamo. Era un’innovazione molto importante: la società si faceva promotrice di un’apertura culturale, diretta a tutti i dipendenti di qualsiasi livello e anche alla cittadinanza: vennero, infatti, organizzati spettacoli teatrali, concerti, mostre e altre iniziative. Prestigiosa fu la mostra di sculture all’aperto promossa a Spoleto in occasione del Festival dei Due Mondi. I primi concerti Jazz in Umbria si tennero proprio a Terni fra 1967 e 1968, per confluire poi dopo qualche anno nel Festival di Umbria Jazz organizzato dall’assessore regionale, il ternano Alberto Provantini.
Altra importante iniziativa della Terni di Osti fu la pubblicazione di molti volumi che venivano poi distribuiti ai dipendenti e alla cittadinanza. Si ricordano in particolare i Manuali del territorio, curati da Bruno Toscano, guide approfondite alla realtà dell’Umbria meridionale.
Altri importanti aspetti riguardarono l’assunzione di personale qualificato, l’attenzione alla formazione, lo stile più aperto e trasparente di relazioni industriali in una situazione ternana dominata storicamente dal clientelismo e dall’autoritarismo interno alla fabbrica.
Altro importante progetto incoraggiato da Osti fu quello della ristrutturazione del cosiddetto Villaggio residenziale Matteotti, secondo criteri di avanguardia. Si trattava del vecchio villaggio Italo Balbo, voluto dal fascismo alla fine degli anni 30 che fu ampliato e migliorato chiamando alcuni professionisti di livello nazionale e programmando gli interventi con la partecipazione dei lavoratori che lo abitavano.
Importanti anche gli accordi che furono raggiunti sugli aspetti ambientali e di sicurezza, allora ancora poco diffusi nelle pratiche industriali.
Alcune di queste iniziative diedero i loro frutti dopo la defenestrazione di Osti, ma nel complesso determinarono una forte sprovincializzazione dell’azienda e l’apertura a correnti di avanguardia.
In termini strettamente aziendali e di carriera quella di Gian Lupo Osti a Terni fu una sconfitta ed egli ne parlava con molta amarezza. Mi ricordo un convegno internazionale che organizzammo alla fine degli anni ’90, al quale lo invitai. Ricordo quanto fosse emozionato a tornare in quella azienda, tuttavia da un punto di vista più generale, la sua presenza insieme a quella del gruppo dirigente che intorno a lui si creò lasciò un segno importante nella realtà industriale ternana. Fra i dirigenti che lavoravano con Osti sono da ricordare fra gli altri Stefano Zara, direttore del personale, Biagio della Volpe, Piero Bizzarri e Marcella Calzolai, una delle prime donne a ricoprire ruoli dirigenti dell’industria di stato italiana.
Terminato il nostro volume rimasi a lungo in contatto col dottor Osti. Lo andai a trovare a Roma e a Bolsena discutendo con lui di vari problemi. Ricordo con piacere la lettura di uno dei suoi ultimi testi, Invecchiare in giardino, che mi colpì molto e per il quale gli feci dei complimenti che sembrò gradire. Non era un uomo facile a rivelare i propri sentimenti. A cavallo fra la vecchia generazione dei grandi capitani di industria come Oscar Sinigaglia, Enrico Mattei, e la nuova cultura dell’Italia democratica, con una visione più complessa e problematica, pur appartenendo alla seconda, manteneva qualche tratto della prima. Per quanto mi riguarda, poi, la sua lezione fu decisiva per il mio lavoro intellettuale: mi portò dallo studio interessante ma totalmente astratto delle questioni industriali a una conoscenza più profonda di che cosa avesse significato la grande avventura della siderurgia italiana. Ne ho scritto molto in tutta la mia produzione successiva al nostro libro, sia sul piano nazionale e internazionale, sia su quello regionale e ternano con la lezione di Gian Lupo Osti sempre come punto di riferimento.