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di Franco Barbabella

Parafrasando l’antico adagio passato dalle città tedesche del Medioevo a quelle italiane, si potrebbe dire che “l’aria dei comuni rende liberi”. Spirava infatti aria di libertà nell’incontro dei rappresentanti di una cinquantina di liste e movimenti civici dei comuni delle quattro regioni dell’Italia centrale, Marche, Lazio, Toscana e Umbria, svoltosi sabato 28 gennaio ad Orvieto.
Il dato numerico è importante, perché una rete di cinquanta soggetti che riescono ad affermarsi interpretando senza spirito di parte il dovere di governare con gli occhi, con la testa e con il cuore dei cittadini, è di per sé indicativa di un sommovimento culturale e politico-strategico. Un sommovimento dal basso che sta prendendo forma e che pone domande nuove alle quali non si potrà rispondere con un’alzata di spalle o con le tattiche strumentali collaudate dei partiti tradizionali di vecchio e di nuovo conio.
Ma l’evento, perché di questo si tratta, è importante ancor più per il fatto che il radicamento di questi soggetti civici nei territori delle quattro regioni centrali costituisce l’emozionante fermo-immagine di una nascita aspettata da tempo, quella di una realtà che da geografica si riconosce come culturale e politica, diventa soggetto e vuole guardare al futuro in questa nuova veste.
Il tema del Centro, Italia centrale o Italia mediana, attendeva solo di essere posto in modo esplicito nel quadro di una progettualità necessariamente riformatrice. Ed è appunto quanto è accaduto nell’incontro di Orvieto, in cui si è rotto l’andamento di un dibattito pubblico storto e distorto, in cui da sempre sembra che l’Italia sia solo Nord e Sud. L’Italia centrale, l’Italia mediana, sembra non esistere, un non-luogo non solo come specificità di problemi e di potenzialità e ruolo nel presente e nel futuro del Paese, ma addirittura come posizione geografica.
Eppure c’è la capitale d’Italia che ne condiziona da sola storia e prospettive. Eppure ci sono problemi strutturali non solo analoghi a quelli del Settentrione e del Meridione, ma anche specifici, vecchi e nuovi, e opportunità che potremmo definire identitarie, oltre ad un ruolo di cerniera di valore generale.
Negli ultimi trent’anni singoli intellettuali, riviste, qualche politico, hanno tentato di uscire da questo non-luogo e non-problema. Ma il dibattito non è mai decollato sul serio verso scelte politiche significative, sia perché in realtà il Centro Italia può avere un suo ruolo solo in un dibattito serio di riorganizzazione istituzionale generale, sia perché i partiti tradizionali non vi hanno mai dedicato attenzione e sforzo al fine di individuare problemi e progetti caratterizzanti, e appunto un ruolo protagonista per lo sviluppo e la modernizzazione del Paese.
Nasce dunque ora l’Alleanza Civica dell’Italia Centrale, non come invenzione a freddo di menti dalla fantasia fervida, ma come aspetto rilevante di un processo politico-strategico in atto da alcuni anni. Infatti, mentre in Umbria e nelle altre regioni cresceva la spinta coordinata di un nuovo civismo orientato in dimensione macroregionale, si faceva avanti l’esigenza di unire le aggregazioni macroregionali in una Federazione Civica Nazionale. C’erano già Alleanza Civica del Nord e Mezzogiorno Federato. Mancava la fondazione del processo federativo del civismo dell’Italia centrale. Il 28 gennaio questa lacuna è stata colmata ed il percorso federativo può svilupparsi con rinnovato entusiasmo.
Peraltro l’evento cade nello stesso momento in cui il nuovo governo ha deciso di accelerare l’iter del progetto di autonomia regionale differenziata, ciò che rispetto ad esso conferisce oggettivamente al civismo il ruolo di soggetto politico nazionale radicalmente ribaltante. Non è tanto la questione, ideologica, della collocazione nel campo progressista, quanto piuttosto il fatto che il civismo non può non seguire una logica politica diametralmente opposta a quella sottesa al progetto di autonomia differenziata con marchio leghista, che non è solo divisiva per concorrenza (di per sé nient’affatto negativa), ma propone una visione del Paese irrigidita in uno schema di “regionalismo spezzato”, lontano e in conflitto con l’esigenza, la necessità, di una revisione in profondità dell’assetto istituzionale organica e armonica.
Palese la mancanza di visione di un Paese da modernizzare nel contesto europeo e internazionale, palese la mancanza di un serio progetto istituzionale con cui confrontarsi. La destra sembra tutta impegnata nella produzione di spot elettorali (lo è l’autonomia differenziata, propaganda per le regionali lombarde) e di iniziative di facciata per dimostrare coerenza rispetto agli impegni presi in campagna elettorale, bandierine da piantare a gloria di partito, come a suo tempo il reddito di cittadinanza, quota cento, il taglio dei parlamentari.
Lo testimoniano ancora, se ce ne fosse bisogno, la frenesia dell’impegno su un presidenzialismo purchessia e la confusione sul futuro delle province. Tutte questioni (riforma del regionalismo, riforma del sistema istituzionale centrale, riforma del sistema degli enti locali) che non stanno nella mente della classe dirigente governativa come questioni interconnesse, questioni da trattare con logica di sistema. Il problema che deve preoccupare però è che anche dalle forze organizzate dell’opposizione non emerge una logica di sistema, un progetto diverso e alternativo, una visione di futuro.
Siamo di fronte dunque non tanto, e comunque non solo, a una povertà di idee e ad un evidente deficit di competenza e di coraggio delle classi dirigenti, cose che non si risolvono certo con i congressi, soprattutto se fatti per sapere chi vince e non per sapere che cosa deve fare chi vincerà, quanto piuttosto ad una crisi verticale della democrazia, ciò che cambia i termini della discussione, almeno nell’ottica di un civismo che voglia porsi come soggetto politico riformatore a tutto tondo, in senso pieno e generale.
Il civismo infatti è consustanzialmente federalista e riformatore nel senso più autentico di questi termini, o semplicemente non è. È federalista alla Carlo Cattaneo, e in qualche modo io credo anche alla Gianfranco Miglio, perché nel foedus romano, il patto tra pari, trova non solo l’idea ma lo strumento che rende possibile la conciliazione del radicamento nel territorio con la proiezione nazionale ed europea delle sue istanze sociali, politiche e istituzionali di rinnovamento.
Si tratta di un “federalismo funzionale”, che parte dalla presa d’atto del fallimento di due connotati congiunti dell’ideologia e della prassi delle classi dirigenti che hanno caratterizzato e dominato la vicenda italiana, il localismo e il centralismo mascherato da falso decentramento, entrambi, per idee e per prassi, responsabili dei ritardi storici del Paese e del suo rinsecchimento in un conservatorismo trasversale rischioso e povero di prospettive. Un sistema da cui siamo stati capaci di trarre su entrambi i fronti i maggiori difetti.
È nel contempo un federalismo riformatore, perché, proprio partendo dalla convinzione esperienziale che le questioni territoriali vanno considerate nella loro interconnessione con quelle generali (in termini di sviluppo, di qualità e sicurezza sociale, e di funzionamento istituzionale), ragiona in modo sistemico. In altri termini, bisogna porre mano alla riorganizzazione del sistema democratico con una riforma istituzionale generale e una riforma elettorale che consenta di garantire sì la governabilità ma non a scapito della rappresentanza, e anzi valorizzando l’armonizzazione delle differenze mediante forme di partecipazione diffusa alle decisioni e al controllo.
Ciò che richiederebbe, come ho detto altre volte, l’elezione a suffragio universale con sistema proporzionale di un’Assemblea Nazionale Costituente e non commissioni speciali, tanto meno riforme parziali trattate come bandierine o spot elettorali. Accompagnata dal coraggio: 1. di riprendere il modello migliano delle macroregioni; 2. di risolvere il problema della natura delle province, prevedendone o l’abolizione e il conferimento delle funzioni alle aggregazioni intercomunali o un ruolo istituzionale autonomo con elezione diretta; 3. di rendere in ogni caso possibili ed effettivamente praticabili: a) il superamento dei confini amministrativi in ragione di una organizzazione dei servizi territoriali ottimizzata a vantaggio del cittadino sia in termini di spesa che di efficienza; b) la programmazione endoregionale su base territoriale e non a cascata dal centro alla periferia (rovesciamento della piramide).
La storia italiana, soprattutto con le convulsioni e gli eventi imprevisti degli anni più recenti, i cigni neri (la crisi climatica, la pandemia, la guerra) che popperianamente falsificano le certezze e mettono a nudo la fragilità delle costruzioni mentali e degli assetti sociali e istituzionali, ci dice perciò della necessità di una svolta, una politica pensante, coraggiosa, capace di reimpiantare il Paese con radici più solide di quelle che vediamo oggi vacillare ad esempio di fronte a questioni di giustizia spinose sì ma trattate con una superficialità che è difficile immaginare più allarmante.
La costituzione dell’Alleanza Civica dell’Italia centrale avviene dunque in un momento delicato della storia italiana e in un momento di passaggio cruciale della storia europea di fronte alle sfide globali. La promuove una classe dirigente matura ed esperta, forgiata nelle battaglie delle comunità territoriali, che non solo sa rappresentarsi, come Ambrogio Lorenzetti, “Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo governo” e comprendere il significato dei saggi di economia e politica de “Il buongoverno” di Luigi Einaudi, ma vede con lucidità che il destino delle comunità territoriali, (comunali, intercomunali e regionali) è strettamente connesso con la battaglia del rinnovamento della politica e del sistema Paese. E per questo nasce come parte del complessivo percorso del civismo verso la Federazione nazionale.
Una classe dirigente che pone a tutti e ad ogni livello questioni essenziali che non possono più attendere. Bastino alcuni esempi: 1. La regolamentazione dell’ordinamento amministrativo di Roma capitale, da cui dipenderà anche la riorganizzazione amministrativa di comuni, province e regioni. 2. Il superamento dei confini amministrativi locali e regionali, oggi diventati barriere, verso la progettazione di reti di servizi (per la mobilità, per l’energia, ecc.). 3. La programmazione di efficienti servizi interregionali in tema di sanità, di scuola e di università. 4. La definizione di strategie comuni per le politiche di salvaguardia e valorizzazione ambientale. 5. L’individuazione di “regioni culturali” (ad esempio la “regione degli Etruschi”) da trasformare in bacini propulsivi di turismo organizzato. 6. La progettazione e l’uso coordinato delle tecnologie digitali.
Si potrebbe continuare. Sarà un gran lavoro già quello iniziale teso a convincere e aggiungere maglie alla rete. Ma sarà anche un lavoro entusiasmante, perché fa ritrovare al fare politica il suo senso più pieno, quello di progettare dinamicamente il governo della polis, il luogo delle relazioni e della creazione di ricchezza economica e civile. Con
autentico spirito repubblicano, in cui i valori di base della democrazia diventano studio, pensiero pensato, proposta e iniziativa tendente al risultato di miglioramento.
Riscopriamo in questo modo le radici più solide e vitali della storia nazionale, quelle che hanno fatto crescere le città medievali e hanno conferito ai comuni il ruolo di soggetti vocati alle libertà (“l’aria delle città fa liberi”). I comuni, protagonisti del processo di unità nazionale. I comuni e le realtà territoriali, oggi soggetti di aggregazioni non più occasionali ed estemporanee ma di stabili organizzazioni capaci di partecipare all’impresa della modernizzazione, quasi rifondazione, del sistema Paese.
Nelle prossime settimane, nel quadro del percorso verso la Federazione civica nazionale, struttureremo l’alleanza civica dell’Italia centrale e organizzeremo una importante occasione di riflessione sulla riforma istituzionale. Sarà il nostro contributo alla nascita della Federazione, che concepiamo non tanto come nuovo soggetto politico quanto come soggetto nuovo, con ancoraggio ideale all’Europa federale, ai valori repubblicani e costituzionali, all’idea di società aperta. Un soggetto riformatore inclusivo e dialogante con gli altri soggetti orientati in senso autenticamente riformatore, lontani dalle ricorrenti e mai sopite tentazioni sovraniste e populiste.