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di Paola Benadusi Marzocca

Al di là del conformismo e delle regole, insaziabile e avida di vita Katherine Mansfield, pseudonimo di Kathleen Beauchamp, conobbe nella sua breve vita lo spettrale e profondo disagio che deriva a tutti coloro che vivono ardendo del proprio fuoco, per i quali insomma il mondo è in continua trasformazione. Proprio per questo si può dire per assurdo che la vita non riuscì a raggiungerla, ma la costrinse a subire l’antico inganno di chi si volta indietro senza più riconoscersi, rimanendo colma di infinite possibilità come un giorno monco della notte. Approdata dalla Nuova Zelanda in Inghilterra nel 1908 «la piccola selvaggia di Wellington», dall’aspetto comune, come disse di lei Virginia Woolf quando la conobbe, incontrò a Londra non poche difficoltà. Di temperamento ribelle e spregiudicato, dotata di notevoli capacità intellettuali, «incarna un ideale avventuriero e spavaldo», scrive nella prefazione ai suoi Racconti Giulia Caminito (BUR Rizzoli, con un saggio introduttivo di Armanda Guiducci, 537 pagine, 13 euro).
In un’epoca coercitiva quale fu quella in Europa a cavallo tra l’800 e il ’900 che relegava la donna a un ruolo di ridicolo parassitismo, contravvenire, comportava un’alta percentuale di rischio e spesso il bando dalla buona società. Da ciò l’esigenza di garantire allo spirito quella agognata libertà che si tradusse per lei in un destino di nomade. Era molto giovane, ma fin da bambina le sue fantasie, i suoi desideri e i suoi sogni divennero misura di vita, ma se per chi ama le definizioni può essere ritenuta una femminista ante-litteram, nel complesso, sia come donna che come scrittrice, è stata qualcosa di più o perlomeno di diverso, una donna che a dispetto dei suoi tempi ha saputo vivere secondo le sue esigenze, senza conformarsi a regole dettate da altri, «decisa come una falena a bruciarsi a tutte le esperienze… Soprattutto una ragazza spaventata…», scrive Armanda Guiducci. Impaurita, sicuramente, ma di intelligenza superba che traspariva dai suoi occhi scuri, dal suo sguardo apparentemente calmo e imperscrutabile.
Non a caso l’atmosfera indeterminata che avvolge i suoi Racconti è la stessa di certi giorni di vacanza che si vorrebbero senza fine, ma che se davvero lo fossero, rimarrebbero appannati da un’ombra di incongruenza e di sazietà. Ansia, angoscia, presentimento di una felicità irrealizzabile; anelito a ciò che è buono, limpido, onesto; convulso stupore di fronte alla sua impossibilità. Tutto ciò è nelle pagine della Mansfield, lente, scorrevoli, intessute di dialoghi leggeri, ariosi; di monologhi brevi di incantevole grazia. Ma quando tutto sembra perfetto, a momenti, una frase li spezza e la realtà appare nel suo grigio bagliore. Anche se manca una concezione esistenziale compiuta, del resto non indispensabile, un senso profondo impregna queste pagine. A differenza di Čechov, cui Katherine Mansfield si richiama esplicitamente nell’epistolario e nel diario, la vita che essa descrive, fluttua, si perde in una miriade di attimi staccati l’uno dall’altro; si stempera in frammenti impalpabili che lasciano solo un sapore di pianto. Niente di romanticamente fumoso c’è nei suoi personaggi che, forse, neppure si possono chiamare tali, poiché non agiscono, né si muovono, è la loro natura che si frantuma e diluisce nella fragile arbitrarietà di un sentimento improvviso, di uno stato d’animo passeggero.
Ennesimo schermo di un’anima incapace di sostenere l’ingiuria della realtà umana? Consapevole distacco che tradisce l’impotenza di una giovane donna esposta a tutti gli sbandamenti dell’abbandono? Amori infelici, delusioni dagli uomini che aveva amato, due aborti. Nelle pagine del Quaderno di appunti raccolte dal marito, il critico inglese John Middleton Murry (Feltrinelli), certi brevi frammenti rivelano una ragazza vibrante di vita e disperata dinanzi all’ineluttabilità della malattia che non l’avrebbe risparmiata. Forse presentiva la morte che fu precoce, a 34 anni, il 9 gennaio 2023 a Fontainebleau, in Francia, per emottisi. Nella sua frenetica smania di consumare ogni giorno della sua esistenza quasi che fosse l’ultimo, da patetica e irruente eroina di un romanzo conosciuto soltanto da lei. La sua vita fu in effetti un’avventura di nervi e di spirito. Fu caotica. E Katherine l’affrontò a mani e mente nudi sperimentando, senza risparmiarsi, le contraddizioni del suo essere. Niente, tuttavia, delle convulsioni, delle speranze, della disperazione, dell’amore, della rabbia, delle incertezze che segnarono il suo cammino spezzato troppo presto, appare in questi racconti: l’angoscia fu controllata assumendo la forma di un distacco sereno, platonico, quello inespresso o altrimenti espresso di chi porta dentro di sé il senso di un malinconico naufragio.