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di Stefano Ragni

Si è da poco conclusa la settantottesima edizione della Sagra Musicale Umbra con riscontri più che positivi, tanto da indurre la presidente della fondazione Perugia Musica Classica, Anna Calabro, a parlare, in una intervista de “Il messaggero” del 30 settembre, di un vero e proprio incremento delle presenze e di un clima di consenso che sembra rinnovare un rapporto tra la città e il suo blasonato festival.
Condividendo il plauso per una edizione che, con il tema “La città delle idee” ha saldato l’impianto dei concerti e delle manifestazioni al centenario di Italo Calvino, è pur necessario chiedersi quale sia la reale consistenza di una manifestazione che, non si posiziona oggi nel contesto dei grandi eventi cittadini e non riscuote la popolarità di una proposta come quella di Umbria Jazz, vetrina ormai planetaria di impianti spettacolari che hanno un potere attrattivo da presenze “da stadio”. Differente la qualità dei percorsi, è ovvio, ma al di là di numeri neanche lontanamente paragonabili, si deve forse riflettere se e quanto l’immagine della Sagra Musicale Umbra sia realmente entrata nella mente e nel cuore dei perugini, quasi avesse le stigmate di un peccato originale non ancora assolto. Sul finire degli anni ’90 il fondatore, Francesco Siciliani, dubitava ancora della affezione dei perugini al suo festival quando dichiarava: “[…] perché in tutti questi anni la vita della manifestazione, data la sua impostazione, è sempre stata irta di complicati risvolti, di contorti nodi che andavano pazientemente sciolti senza reciderli”.
Indubbiamente la Sagra, al pari del Maggio Musicale Fiorentino è espressione di un contesto aristocratico che affondava le sue radici nel consenso delle classi alte al fascismo. Il Maggio sbocciò nel 1933 a Firenze grazie alle attenzioni del conte Luigi Ridolfi Vay da Verrazzano, federale della città, con il coinvolgimento dell’onorevole Carlo Delcroix. Per la Sagra si trattò, nel 1937, di un nobile melomane di alto lignaggio, Guido Carlo Visconti di Modrone, senatore del Regno, che, operando con il consenso di Mussolini, nel 1939 agiva sotto l’egida di una istituzione, la Università per Stranieri, in cui il regime riconosceva la sua impronta al punto di condizionarne anche la dizione. Eliminando la parola “festival” e coniando quel termine “Sagra” che è comunque un francesismo: le sacre, missa du sacre, le sacre du Roi, ed è per giunta al maschile.
Passato il turbine della guerra si sa che un manipolo di intellettuali che rispondevano ai dettami filosofici di Aldo Capitini ripristinarono la Sagra come chiave di accesso della città alla democrazia: figura centrale di questa rinascita del 1947 fu Francesco Siciliani che, già avviato alla carriera di direttore artistico al Teatro san Carlo di Napoli, veniva nominato il primo docente di Storia della Musica dell’Università per Stranieri di Perugia dallo stesso Capitini. Del nutrito gruppo di intellettuali che facevano capo al filosofo della non-violenza faceva parte un piccola pattuglia di esponenti cittadini delle arti figurative: Enzo Rossi, Enzo Brunori e Giorgio Maddoli. Nel contesto di questa operatività Siciliani, responsabile dei concerti settimanali promossi dall’Army School of Education dell’esercito britannico che aveva sede in palazzo Gallenga, trovava anche tempo e modo per far nascere, nel 1946, l’associazione degli Amici della Musica, facendo di fatto dell’aula magna dell’Università per Stranieri, luogo in cui aveva operato come docente dei corsi di Alta Cultura anche Visconti di Modrone, una autentica Betlemme della musica cittadina.
Se al termine della edizione della Sagra della fondazione il podestà Colombo Corneli salutava il senatore Visconti di Modrone, augurandosi di rivederlo l’anno seguente, nell’immediato dopoguerra, Siciliani, che prudentemente aveva alienato da sé gli Amici della Musica affidandoli alle cure di donna Alba Buitoni, si trovò subito davanti alle prime avvisaglie di un recalcitrante consiglio comunale che forse non vedeva nessuna utilità nell’accollarsi gli oneri di una impresa musicale di un respiro così ampio da raccogliere sotto il suo manifesto programmatico il respiro di tutto il pensiero sacro, una tradizione millenaria che abbracciava il francescanesimo e l’ecumene laico di Capitini. Non ci si poteva aspettare niente di diverso da una classe politica cittadina che, in seguito, seppe respingere al mittente le offerte di Giancarlo Menotti che porgeva, su un piatto d’argento la proposta di un Festival “dei Due Mondi”.
Fatto sta che Siciliani, a cui la Sagra cominciava sin da subito a stare stretta, dovette appellarsi alle sollecitazioni di don Sturzo e dell’allora emergente Andreotti per imporre all’amministrazione comunale una manifestazione annuale che avrebbe fatto della città il polo di attrazione di quelle urgenze del “sacro” di cui sarebbe stato poi clamoroso manifesto il Concilio Vaticano secondo.
È lo stesso Siciliani a ricordare come nel ’48, in un clima elettorale convulso, dovette ricorrere a una falange di giovani comunisti, tutti seguaci di Capitini, tra cui il citato pittore Rossi e il medico umanista Lanfranco Mencaroni, per provocare in una seduta del consiglio comunale una piccola, autentica levata di scudi onde far entrare la Sagra nell’ottica delle manifestazioni destinate ad essere tutelate e in qualche modo finanziate dalla amministrazione civica.
L’impianto “dottrinale” della Sagra non poteva comunque essere meglio espresso, cosa di cui Siciliani era convintissimo: “ Lo spirito informatore della Sagra, come alta manifestazione d’arte e di cultura, come centro d’incontro e di meditazione di valori impegnati, al di sopra e al di fuori degli schemi ideologici e di partito, aveva trionfato e vinto la sua prima battaglia.
Dall’arcivescovo della città al sindaco socialista, da don Sturzo ad Aldo Capitini, dal sottosegretario liberale ai funzionari della direzione dello spettacolo, da alcuni settori democristiani a quelli comunisti, tutti avevano dato un consapevole e aperto contributo per la costituzione del nuovo festival che avrebbe dovuto dare una caratteristica dimensione internazionale alla autentiche vocazioni di Perugia e dell’Umbria”.
E quando diceva “internazionale” Siciliani non poteva non riferirsi anche all’ateneo di palazzo Gallenga che continuava a godere delle sue lezioni di storia della musica.
Nei primi dieci anni di attività la Sagra offrì i meglio di sé: grandi direttori con von Karajan, Böhm, Scherchen, Jochum, Mitropoulos, Casals, Celibidache, Perlea, tutti nomi da incisioni discografiche che i perugini si trovavano sul podio in san Pietro. Orchestra come la Philarmonia di Londra, la Sinfonica di Vienna, cantanti quali Elisabeth Schwarzkopf e Maria Callas, la autentica scoperta di Siciliani, compositori in prima esecuzione come Britten di War Requiem, Hindemith, Dallapiccola, Pizzerti, Orff, Dessau, Honegger, e le grandi riscoperta musicologiche da Monteverdi a Bach, a Haendel, a Carissimi. Ma, mentre la Sagra solcava i sentieri alti della storia della musica, i conti gemevano, così, come ricordava ancora Siciliani: “ Le apprensioni derivanti prevalentemente dalla situazione finanziaria della Sagra, l’annuale progressivo aumento dei costi, ai quali non faceva riscontro un proporzionale incremento nelle sovvenzioni governative, l’accumularsi di interessi passivi sui contributi dello Stato, deliberati, ma non erogati tempestivamente, alcuni preventivi deliberatamente arrischiati che si chiudevano con inevitabili consuntivi deficitari, rendevano necessario un ridimensionamento del festival in base a concrete possibilità di spesa. Non potendo sperare sul reperimento di nuovi fondi bisognava rivedere il programma, limitarlo quantitativamente ed escogitare nuovi espedienti nella realizzazione delle manifestazioni. Ebbe così inizio un periodo estremamente delicato e pericoloso durante il quale, per mantenere in vita la Sagra, ogni anno minacciata nella sua stessa esistenza, si dovette falstaffianamente bordeggiare e assottigliare l’ingegno”.
Mentre il maestro Siciliani, quasi nel tentativo di scrollarsi di dosso la sua Sagra, accettava nel 1957 l’incarico della direzione artistica del teatro Alla Scala, mille piccoli scricchiolii facevano intravedere minuscola, insidiose crepe nei rapporti con una città che, tra amministrazione comunale e Azienda Autonoma di Turismo, come allora si chiamava, sembrava non avesse la minima intenzione di assumersi la responsabilità di farsi, come aveva sognato Visconti di Modrone, una piccola Salisburgo d’Italia. Eppure Perugia, con la Sagra dei “tempi d’oro” si era guadagnata la stima di una classe intellettuale che, ogni edizione, era pronta a farsi avanti per essere presente alle novità musicali, spesso “assolute” che Siciliani sapeva estrarre dal suo cilindro magico. Intendiamo riferirci ai critici musicali e ai giornalisti delle grandi testate che, ogni settembre, facevano capo al Brufani, piccola corte di satrapi dell’informazione. Imparammo a conoscerli un po’ tutti, da Teodoro Celli, secco, malevolo e scricchiolante come un colonnello inglese in pensione, al cherubico Giovanni Carli Ballola, che aveva appena scritto la sua biografia di Beethoven e si chiedeva come poter conciliare la sua funzione di funzionario della programmazione della Rai con la libertà di opinione da esprimere come critico di spettacoli. Ci ha lasciato proprio in questi giorni, Carli Ballola, e avrà finalmente risolto il quesito. E poi Lorenzo Arruga, Luigi Pestalozza, Duilio Courir, Erasmo Valente, Fedele d’Amico, Gioacchino Lanza Tomasi, a Massimo Mila, già mitico autore della “Breve storia della musica” e che non riusciva per questo a vincere una cattedra universitaria, Andrea della Corte, il biografo di Verdi, Giuseppe Pugliese, Giorgio Gualerzi, Guido Pannain, l’ultimo dei crociani. Erano le tastate nazionali dal “Corriere” al “Tempo”, a “Paese sera”, al “Messaggero”, al “Mattino”, e rotocalchi come “Oggi” e “Gente”. “Repubblica” e “Il manifesto” arriveranno dopo. A san Pietro si vedevano anche le telecamere della Rai incombere sul pubblico, appollaiate su strutture e ponteggi di metallo. Sfogliamo un piccolo album dei ricordi., quelli di Leonardo Pinzauti, temutissimo critico de “La Nazione”, detto, per la sua velenosità, il “pinzatutti”. Le sue testimonianze perugine cominciano nel 1967 con una intervista a Penderecki al Brufani, la sera del 29 settembre. Ma nel 1970 sembra già sfogliarsi un album di foto degli “scomparsi”. Il 19 settembre, nella hall del Brufani, le conversazioni tra Siciliani e von Karajan sembrano quasi immagini stinte. E un inedito ricordo, quello di una serata in casa Buitoni, dove Raimonda, moglie di Franco, canta arie di Schubert per i suoi ospiti, una donna che ha qualcosa di “arcano e seducente”. Il 26 settembre del 1971 Julia Hamari canta la Rapsodia di Brahms, diretta dal giovane Muti: sui suoi occhi lacrime vere. Il 1972 sembrò comunque segnare il punto di non-ritorno della Sagra: da quel momento i critici delle testate nazionali cominciarono ad abbandonare la Sagra e nessuno li ha più visti tornare. Pinzauti ci liquidava così: “Oggi si conclude la Sagra Umbra, o meglio quel che rimane della Sagra”.
Al di là dei ricordi, la problematicità della Sagra non era sfuggita nemmeno a un attento giornalista perugino che, come fosse l’altro ieri, si interrogava su questa quasi indifferenza che la politica cittadina, ma anche il tessuto umano perugino, sembrava riservare al suo festival. Marcello Monacelli, per un ventennio responsabile della redazione perugina de “Il messaggero”, nel 1998 registra un alto tasso di distanza tra la città e la persistenza del festival del sacro.
Con buona pace del caro, indimenticabile Marcello, la Sagra dei “bei momenti”, come recita un’aria delle Nozze di Figaro, non tornerà più, e non ci si deve rammaricare per la perdita di un passato che ci appartiene comunque, per storia e cronaca. Ma si può affrontare la sfida della modernità con strumenti nuovi, come dimostra la Fondazione Perugia Musica Classica che ha unito la due anime musicali della Sagra e degli Amici della Musica. e che gode del fattivo sostegno di Fondazione Perugia.
Occorrono oggi dei “miracoli” per attrarre pubblico e simpatie e in questa edizione del ’23 ha tenuto banco il coro st. Jacob di Stoccolma, con il suo carismatico direttore Gary Graden. I biondi cantori, eredi quel coro della radio Svedese di Eric Ericson, di cui Graden è discepolo, ha sostenuto un magistrale concerto a Montefalco, unendo la suggestione di cicli pittorici del Gozzoli e di Perugino, coniugando arti figurative e musica come solo in Umbria può accadere. La sera prima aveva concluso in stile impareggiabile la sessione di concorso del Premio Siciliani arrivata alla sua conclusione con la musica dell’Agnus Dei. realizzando di fatto la chiusura dell’ Ordinarium, Missae maturato nelle precedenti edizioni. In prima fila, come non accadeva da decenni, il sindaco di Perugia, Andrea Romizi. Registriamo l’eccezionalità dell’evento. Ma ora sarà bene cambiare musica. Per la persistenza delle motivazioni di un concorso internazionale che onora la memoria del grande maestro perugino potrebbe essere opportuno tornare alle origini di quel pensiero religioso che Siciliani, nelle sue competenza filosofiche faceva derivare dal verbo religare. Nella interpretazione che sant’Agostino offre di Lattanzio il religare è anche ricongiungimento e riconciliazione, per superare il laceramento del peccato, dell’odio e della sopraffazione del male. Rinuncia alla violenza e accettazione della persuasione che si fa religione ed è trionfo di ciò che unisce su ciò che separa.
E per noi Umbri le radici sono quelle che ben sappiamo: la predicazione europea di san Benedetto, nome assunto dal Papa Emerito, l’amore per la natura di san Francesco, come lo ha letto Massimo Cacciari, la non-violenza di Capitini, la Marcia per la Pace, la scesa in campo della Pro Civitate Christiana di Assisi, il “Cortile dei gentili” come lo aveva voluto il cardinal Ravasi. Facile per noi raccogliere, ovvero religare queste tante componenti maturate in Umbria e sulla cui attualità nessuno può obiettare. Legare il nome di Siciliani a una prova di composizione tematizzata sulle forme di poesia laudense, in particolare quella di Jacopone, destinandola a una forma di spettacolo sacro da tenersi sotto le volte di una chiesa monumentale, come ne abbiamo tante, corredandola di componenti di danza sacra, nello spirito del teatro medievale, vorrebbe dire tener fede a un mandato che la Sagra del terzo millennio potrebbe offrire alle nuove generazioni. Tramandare il passato come miglior forma di modernità, perché di religione l’uomo avrà sempre bisogno.
Nel pieno del successo di una celebrazione di Perugino, un pittore che onora la nostra storia, abbiamo voluto leggere in tal chiave anche il “ritorno” della Sagra nel luogo in cui è stata originata, l’aula magna della Università per Stranieri. Oggi che la drammaticità delle contrapposizioni mondiali si sono moltiplicate e che tutti sembrano essere diventati nemici di “tutti gli altri”, il messaggio che può ancora esprimere la Sagra Musicale Umbra deve più che mai levarsi alto e farsi suono di pace e di comunicazione di valori di civiltà e di progresso. Una sfida senza eguali da affrontare con le armi esili, ma potentissime della bellezza della musica.