di Marco Ferrari
Quando nel 1951 nacque il Festival di Sanremo, Italo Calvino si era già fatto torinese, aveva pubblicato I sentieri dei nidi di ragno e Ultimo viene il corvo, scriveva su l’Unità e Rinascita, lavorava all’Einaudi, cominciava la stesura del Barone Rampante. La riviera ligure era nostalgia, non rimpianto. L’anno dopo morì il padre Mario e quindi anche lui divenne vittima della speculazione edilizia, tema a cui dedicò nel ’58 una delle sue opere più note.
L’idea di un festival della canzone italiana si sviluppò al Carnevale di Viareggio, auspice lo spezzino Giancarlo Fusco, ma trovò concretezza grazie all’intuizione di Pier Busseti, gestore del Casinò di Sanremo che migliorò il tentativo versiliese, con l’aiuto di Amilcare Rambaldi, nominato nel dopoguerra nella commissione per il rilancio della struttura. Si trovò quindi l’accordo con Radio Audizioni Italiane e con le case discografiche milanesi. Quando la manifestazione ebbe inizio nel salone delle feste del Casinò, il 29 gennaio 1951, con la famosa frase di Nunzio Filogamo, “Amici vicini e lontani” quasi nessuno si accorse dell’evento. Tanto che i commensali continuarono a cenare e parlottare durante la registrazione mentre Nilla Pizzi trionfava con Grazie dei fiori.
Oggi ci pare impensabile che in quel periodo di realismo socialista, lo scrittore dell’immaginario, Italo Calvino, visitasse l’Unione Sovietica e scrivesse un taccuino di viaggio con cui vinse il premio Saint Vincent. La sua città stava decollando turisticamente e modificava il proprio impianto urbanistico. La borghesia industriale e il ceto medio nordista identificavano nella Sanremo di allora il mito della vacanza, dopo le tragedie della guerra.
La televisione si impadronì del Festival a partire dal 1955 con un collegamento in seconda serata alle ore 22,45 dopo il varietà Un, due, tre di Tognazzi e Vianello, ma già nel 1958 l’evento venne trasmesso in diretta in Eurovisione, l’anno della canzone più canzone d’Italia, Nel blu dipinto di blu che fece di Domenico Modugno “Mister Volare”.
Era quello il periodo del duplice interprete che perdurò sino al 1971 mentre sino agli anni Ottanta era possibile cantare anche in altre lingue. Il boom di “Volare” fu accompagnato da una rivoluzione produttiva, l’entrata sul mercato del maneggevole 45 giri che affiancò il pesante 33 giri, il famoso long playing record, inventato nel 1948 dalla Columbia.
Negli anni del boom economico, accanto a Sanremo, crescono e prosperano altre manifestazioni canore come il Cantagiro, lo Zecchino d’Oro, il Festival di Napoli, Castrocaro e poi il Festivalbar e il Disco per l’Estate. Nel mondo degli urlatori e dei flipper avanza in sordina pure la canzone d’autore e la canzone d’impegno. La prima troverà spazio a Sanremo, la seconda non salirà mai sul palco della Città dei Fiori, confinata nelle piazze e nei circoli politici dove si spegnerà pian piano con la fine della contestazione. Al contrario il contatto dei cantautori con Sanremo provocherà un indimenticabile dramma: il suicidio di Luigi Tenco, uno degli alfieri della scuola genovese. Nonostante Tenco invitasse gli italiani con il suo ultimo acuto “a dire basta”, il clamore del suo gesto, la sera del 26 gennaio 1967, determinò solo effetti momentanei come la vittoria, l’anno successivo, della straordinaria coppia formata da Sergio Endrigo e Roberto Carlos con Canzone per te. Ma già nel ’69 si tornò alla tradizione con Zingara di Bobby Solo e Iva Zanicchi. Qualcosa si era interrotto in quel meccanismo di fascinazione che emanava il connubio tra fiori e canzoni e negli irripetibili anni Settanta si pensò che il giocattolo Sanremo si fosse rotto definitivamente in un paese in preda a una grave crisi politica, sociale ed istituzionale nell’era del terrorismo, degli scioperi e dell’austerity.
Per alimentare di nuovo il mito, nel 1977 la Rai con la prima trasmissione a colori scelse il più ampio teatro Ariston che ancora oggi, grazie a inebrianti scenografie, riesce persino a sembrare qualcosa di più di una semplice sala cinematografica e teatrale. Ma la canzone latitava ancora con l’inaudita vittoria nel 1979 di Mino Vergnaghi con Amare, seguito da un altrettanto dimenticato Enzo Carella interprete di Barbara mentre passò in secondo piano la chimerica A me mi piace vivere alla grande dello scomparso Franco Fanigliulo. L’anno seguente lo stesso Vergnaghi, inviato dalla Rai, girava per le strade di Sanremo a domandare alla gente chi avesse vinto l’edizione dell’anno passato: nessuno se lo ricordava e nessuno lo riconosceva. È dagli anni Ottanta che Sanremo diventa show business, clamore, moda, modello di vita italiana componendo una parte importate nella vita del paese. Calvino non c’è più, il suo Barone Rampante non salta più sugli alberi, i piloni dell’autostrada occultano la visione del mare, al posto delle creuze imperano cancelli, antenne paraboliche e statuine di nanetti. Ripassando di qui, i fantasmi del Barone Rampante e di Medardo di Terralba, visconte dimezzato, si sono fatti mistral e ululano nella notte per sconfiggere i simboli della speculazione edilizia. Distrutta Villa la Meridiana, anche Sanremo ha imboccato un’altra strada, senza perdere del tutto quel fascino di ispirazione che viene dalle architetture forgiate da stranieri, in particolari britannici, come il Palais d’Agra, con le cupole che ricordano il mausoleo Taj Mahal, la chiesa greco-ortodossa, Palazzo Borea d’Olmo e Villa Nobel, dimora estiva dell’inventore della dinamite. Tutti primordi delle fantastiche Città Invisibili, luoghi che facevano parte della vita quotidiana del giovane Calvino nei suoi percorsi urbani, frequentando l’asilo di St.George, poi le scuole valdesi e infine il famoso Regio Liceo Gian Domenico Cassini di Sanremo, accanto a Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano La Repubblica.
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