di Nicola Fano
Giovanni di Piermatteo, detto Giovanni Boccati, era un marchigiano di Perugia. Ossia: nacque a Camerino prima del 1420 e il 3 ottobre del 1445 divenne cittadino di Perugia. Di lui si conosce poco altro di preciso. Si sa, per esempio, che i priori della Confraternita dei disciplinati di San Domenico di Perugia pagarono la cifra notevole di 250 fiorini per la sua opera più famosa, una sacra conversazione detta comunemente Madonna del pergolato: si ha notizia precisa della cifra perché è stato rinvenuto un documento nel quale la Confraternita dichiara di farsi carico del pagamento dell’opera commissionata e – chissà perché – poi rifiutata dall’allora fiorente Collegio della Sapienza Nuova di Perugia. Tutto questo doveva capitare tra il 1446 e il 1447.
La ragione del rifiuto, forse, si può intuirla guardando questa pala, per molti versi magnifica, ospitata nella ricca sala che la Galleria Nazionale dell’Umbria dedica a Giovanni Boccati. La scena è quella consueta delle cosiddette “sacre conversazioni”: la Madonna con il bambino al centro e intorno uno stuolo di santi che, presumibilmente, dibattono temi teologici. Ebbene, i personaggi dipinti da Boccati sono sormontati da un vasto pergolato fiorito. Niente cielo, niente lunette, niente architetture religiose: un intreccio di tralci verdi e boccioli colorati. E l’occhio dello spettatore, inevitabilmente, dalla sobrietà divina della Madonna si sposta al quel tetto botanico che davvero è inconsueto ammirare in una pittura del tempo (esiste una celebre Madonna delle rose dipinta negli stessi anni, 1441-2, da un artista tedesco, Stephan Lochner, però in essa i fiori sono molto meno protagonisti della scena).
Ma non basta. In luogo del consesso di santi (ce ne sono quattro titolati, intorno alla Vergine, Ambrogio, Girolamo, Gregorio e Agostino, e poi sei figure minori), qui compare una schiera di angeli suonatori. Putti che cantano o pizzicano le corde dei loro strumenti. E questa, ben più del pergolato, è una bella stranezza. Un sacro concerto, più che una sacra conversazione. Giovanni Boccati doveva avere una singolare passione per la musica.
Infatti, lì alla Galleria Nazionale dell’Umbria, accanto alla imponente Madonna del pergolato, c’è un’altra sua tavola che, quanto a stravaganza, supera l’altra di molto. Si intitola Madonna dell’orchestra, fu dipinta per l’oratorio della Compagnia del Santissimo Sacramento nella chiesa di San Simone del Carmine di Perugia: porta la data 1455 e già il titolo dice tutto. La Madonna orante tiene sulle ginocchia Gesù (se una madre avesse una postura del genere nella realtà, il bambino cadrebbe per terra immediatamente, ma all’epoca questa era prassi iconografica) al centro di un tempietto, una piccola edicola che li protegge. Un’architettura sobria (niente a che vedere con il sontuoso pergolato) contornata da una vera e propria orchestra di quattordici elementi. Quattordici angeli che cantano e suonano tutto ciò che si poteva suonare all’epoca: strumenti a corda, strumenti a fiato, tamburelli, sonagli. In basso, poi, quattro putti completano la scena e uno di loro, addirittura, percuote con due bacchette uno strano strumento a corda, un salterio, progenitore del pianoforte, abbastanza diffuso non solo in Italia proprio a partire dal Quindicesimo secolo.
Prima di soffermarci meglio su questo strano dipinto, occorre congetturare qualcosa di più su Giovanni Boccati, sulle sue peregrinazioni e sulle sue frequentazioni. A parte la permanenza certa in Perugia, l’artista lasciò opere importanti a Padova, a Urbino e nella nativa Camerino ma, probabilmente alla fine della sua vita, fece ritorno definitivo a Perugia. Normale destino girovago, per un artigiano della pittura del Primo Rinascimento: gli artisti emigravano lì dove i signori li pagavano per abbellire corti e affrescare palazzi. E se andava bene, ci scappava qualche commissione religiosa: pale, polittici, altari. Di Boccati, Giorgio Vasari non fa cenno (la ragione la immagineremo più avanti, quando riparleremo della Madonna dell’orchestra), ma Luigi Lanzi, il gesuita che mappò la pittura italiana tra la fine del Settecento e i primissimi dell’Ottocento, lo cita spesso. Segno della diversa impostazione “critica” dei due amanti della pittura: mentre Vasari governava il mercato artistico mediceo dai palazzi riveriti di Firenze, Lanzi girava l’Italia con il suo taccuino a guardare, ricopiare e attribuire. D’altra parte, fino alla diffusione della fotografia nel Novecento, la storia dell’arte si faceva a piedi, girando per chiese e palazzi, disegnando e studiando le opere migliori: un’epopea aperta dal Lanzi e chiusa da un altro grande, Giovanni Battista Cavalcaselle (e pure lui, ovviamente, spesso cita il nostro Boccati). Insomma, il patrimonio del marchigiano di Perugia oggi è disperso un po’ nel mondo, di qua e di là dall’oceano, e quindi per studiarlo bisogna andare a godersi la sala che gli dedica la pinacoteca perugina.
Dove, appunto, troneggia la Madonna del pergolato: raro esempio di pala che si sviluppa in orizzontale e non con una costruzione gotica come a quei tempi era uso comune. A proposito degli influssi subiti da Boccati, gli storici dell’arte – da Lanza a Cavalcaselle agli studiosi del Novecento – hanno tirato in ballo i nomi di Beato Angelico (attivo a Perugia negli stessi anni), Filippo Lippi e soprattutto Domenico Veneziano (alias Domenico di Bartolomeo, il maestro ideale di Piero della Francesca) che Boccati dovette aver conosciuto – si ipotizza – in un eventuale viaggio a Venezia. Ma è certo che il nostro pittore dovette conoscere l’arte di Piero della Francesca: il volto della Madonna del pergolato dialoga con le più celebri Vergini del grande maestro di Sansepolcro. A cominciare dalla Madonna del Polittico di Sant’Antonio che Piero dipinse proprio a Perugia, sia pure qualche anno dopo la pala di Boccati in questione.
E torniamo finalmente alla Madonna dell’orchestra.
Intanto, vediamo perché questo pittore non poteva piacere a Vasari. Il gran cerimoniere del mercato dell’arte al tempo dei Medici detestava la finzione: per lui la pittura doveva imitare la natura in tutto e per tutto. Nessuna deviazione personale è possibile, nessuna sperimentazione. Ecco perché Vasari, per esempio, detestava Masaccio, Paolo Uccello e, in fondo, lo stesso Piero della Francesca (per non parlare di Pontormo): i pittori plastici (definizione di Roberto Longhi) reinventavano la realtà a loro gusto. Come Giovanni Boccati, qui. Che tranquillamente calpesta il principio dell’imitazione della realtà e del classico rigore iconografico. Guardate Gesù: per segnalare la mollezza delle forme di un neonato, Boccati traccia delle ombre su tutto il corpo del Bambino. Ma sono rughe che indicano come il piccolo Cristo cresca nelle ristrettezze: nemmeno da neonato può essere in carne, pensa Boccati. Semmai, può essere un ex grasso, un putto dimagrito. E trova un sistema unico, originale, per segnalare questo suo convincimento: questo Gesù è un Bambino con la pelle raggrinzita come un vecchio.
Poi ci sono gli strumenti che dànno un tono da testa popolare. È vero che il salterio aveva una tradizione religiosa antichissima (pare fosse suonato dagli ebrei fin da tempi remoti), ma certo nel XV secolo, quando in Italia compare questa versione a percussione, non era uno strumento di carattere religioso. Anzi, per le sue dimensioni e per la possibilità si suonarlo appoggiato sulle ginocchia, era utilizzato soprattutto per accompagnare i canti laici nelle corti. E infatti Boccati affida il salterio a un putto, seppure con le ali d’angelo. Gli angeli veri, gli orchestrali adulti, contornano l’edicola sotto la quale la Madonna assiste alla loro esibizione: qualcuno di loro, poi, sta chiaramente cantando. Canti religiosi? Non si sa.
Quanto alla qualità della pittura, il meglio è offerto dal manto della Vergine, sia per quel che riguarda il colore sia per quel che riguarda i decori della stoffa. Qui, i maestri italiani di Boccati sembrano lasciare spazio a una qualche influenza fiamminga. E del resto fu Federico Zeri a rivelare una «vena vaneyckiana che serpeggia nel pittore di Camerino». Anche quella scuola, infatti, Boccati deve aver incrociato a Perugia alla metà del Quattrocento, quando in città iniziarono ad arrivare gli influssi di tutto il meglio che si stava sviluppando nel mondo. Una sola domanda resta insoluta, alla fine: i frati della Compagnia del Santissimo Sacramento di San Simone del Carmine di Perugia avranno pagato questa sublime stravaganza? Peccato non ci siano documenti a testimoniarlo.