Salta al contenuto principale

di Ludovica Cacciamani

La materia grezza, pura, si è fatta spettacolo. È accaduto a Seed, Festival Internazionale di Architettura che, prima di trasferirsi ad Assisi, nel suggestivo Auditorium di San Francesco al Prato di Perugia ha trovato il suo perfetto palcoscenico. Nell’edificio francescano, magistralmente recuperato dopo i lunghi lavori di restauro, il Colectivo Terròn ha messo in scena uno dei pezzi forti del suo repertorio, “Tierra Efimera”. Il gruppo artistico, strutturatosi nel 2013 in diverse parti del mondo (Cile, Barcellona, Francia) e oggi residente a Grenoble, realizza performance che della sperimentazione materica fanno manifesto. Terrón infatti (nomen omen: significato del termine è “zolla di terra”) tenta di sfruttare al massimo il potere espressivo di elementi quali terra, acqua, sabbia… Gli artisti li manipolano e li trasformano da poveri, ordinari, banali che sono in affreschi tra architettura effimera e coreografia pittorica. Il risultato è una fusione tra teatro delle ombre, narrazione e astrazione, significato e forma, che gli spettatori osservano meravigliati, scoprendo le molteplici potenzialità espressive di tali elementi.
Questo accade anche in “Tierra Efimera”. Sul palco non c’è nulla di più di un grande schermo traslucido e retroilluminato, immobile e immacolato. Una tela bianca che ad un certo punto però comincia a tingersi di un caldo impasto, ad animarsi, a riempirsi di sequenze grafiche, di simboli pittorici, disegni stilizzati, forme, sagome, grafie astratte. La magia si compie dietro ad essa, in quello che non si vede: è al di là dello schermo il vero spettacolo compiuto da sei mani: quelle di Miguel Garcia, Guillermo Manzo, Marie Neichel. I tre artisti, che solo alla fine si rivelano tra gli applausi, per tutto il tempo della performance restano celati e protetti dietro alla tela. Non sono loro i protagonisti: lo sono gli elementi di terra, acqua e sabbia, la loro diversa consistenza, la loro trasformazione; la materia pura e semplice che però nella sua essenzialità sprigiona la sua forza. Ciò grazie alla relazione che intreccia con i corpi, il movimento e il ritmo degli artisti.
Spolverate di sabbia, schiaffi di terra, spruzzi d’acqua, mani sporche e veloci creano quadri animati e fantasiosi. Il pubblico li guarda come fossero un miracolo. È possibile che possano nascere immagini così suggestive ed emozionanti con solo qualche granello di sabbia bagnata? È possibile restare così impressionati e ammaliati dalla visione di tali tableau mai uguali? Piccole linee generano una metropoli in cui nuvole nere sono preludio di un temporale che ben presto arriva e tutto lava via; due grandi coccodrilli diventano un’aquila che vola; ombre indefinite si trasformano in mostri; degli uomini vengono rincorsi da spugne-cancellino; un piccolo pacman da vittima diventa carnefice; strisce deformi si tramutano in fiori.
Non tutto diventa un’immagine di senso compiuto: in alcune scene si hanno semplicemente forme scombinate, o si trovano espedienti per ripulire la tela quando pesanti strati di terra ormai la pervadono, quando è troppo imbrattata. Anche in questi momenti, in questi quadri astratti il pubblico cerca di dare un senso a quello che vede. E si chiede: dove sta davvero l’arte? Nell’opera finita o nel suo processo di trasformazione? Per il Colectivo Terròn sta proprio in quest’ultimo. Nel cambiamento, nell’evoluzione, nella nuova dimensione, nel divenire, nel nuovo essere degli elementi che utilizzano (in questo caso la terra, in altri spettacoli la sabbia, la carta, la paglia). Sono convinti che manipolando la materia si crei una connessione profonda con il cosmo.
È per questo che alla fine dello spettacolo, gli artisti del Collettivo chiedono al pubblico di salire sul palco. Lo invitano a capire cosa hanno visto, cosa c’è dietro al grande schermo, da dove vengono le immagini. Secchi d’acqua e di fango, qualche pennello, spugne, rulli da imbianchino, spazzole lavavetri. È tutto qui. La tela dove hanno lavorato gli artisti è però la cosa che più colpisce per due ragioni. Primo: la terra che la sporca pare non abbia spessore, profondità. Con difficoltà si riescono a decifrare i segni e disegni che fino a poco prima si potevano apprezzare dall’altra parte dello schermo. Non si può quindi non restare stupiti dalla grande abilità degli artisti nel riuscire a creare i quadri, a imprimere tutti la medesima forza per rendere perfetta l’immagine, nel coordinarsi, nell’andare a tempo. Secondo. È quasi impossibile non avere la tentazione di toccare lo schermo. Una naturale attrazione, quasi magnetica, porta il pubblico a voler giocare con la terra, a sporcarsi, a voler scrivere o disegnare o perfino pulire la superficie. C’è una connessione profonda tra uomo e materia.Il Colectivo Terròn lo sa, prova a raccontarlo a modo suo, a metterlo in luce e a comunicarlo. Ci riesce con uno straordinario spettacolo vivente.