Salta al contenuto principale

di Giulio Massa

Meloni aveva o no promesso il taglio delle accise sulla benzina? Lo aveva fatto solo nell’ormai virale video del 2019 oppure anche in occasione della campagna elettorale ultima scorsa? Nel parossistico dibattito sulle accise sui carburanti, tracimato nella consueta e sguaiata orgia verbale dei talk show nostrani, simili quesiti prevalgono di gran lunga su meno intriganti questioni relative, ad esempio, all’opportunità e alla fattibilità, conti pubblici alla mano, di una misura come quella non prorogata dall’attuale governo. Il focus del dibattito sembra essere esclusivamente se la decisione integri o meno un tradimento di precedenti posizioni del presidente del consiglio. Beninteso, non si intende qui svolgere alcuna difesa di ufficio del premier. La parabola di Giorgia Meloni è, su questo come su molti altri punti, emblematica di uno dei tipici vizi della politica italiana. Lo ha lumeggiato, con la consueta lucidità, Angelo Panebianco in un editoriale sul Corriere della Sera di sabato. Panebianco lo etichetta come “il pendolo tra realismo e demagogia”, ossia la staffetta che sistematicamente si realizza tra vincitori e sconfitti nelle elezioni, cosicché i primi, giunti al governo, ammainano le bandiere della demagogia e ripongono i libretti dei sogni per diventare realisti e “consapevoli delle difficoltà e dei margini di manovra ristretti che incombono sull’azione del governo”, mentre i secondi, nel lasciare le stanze del potere, percorrono con simmetrica disinvoltura il percorso inverso.
Quel che colpisce di più, tuttavia, è la veemenza, il climax inquisitorio con il quale a Meloni viene intimato non di dar conto del merito della propria decisione, ma di difendersi dall’infamante capo di imputazione: incoerenza, signori della Corte! Un “processo” il cui significato, ancora una volta, va oltre l’”imputata” di turno, finendo per segnalare uno dei più dannosi tic del dibattito pubblico italiano: la mistica della coerenza anche quando contrapposta ai dati di realtà.
In occasione della campagna elettorale della scorsa estate, Claudio Velardi registrò, con cadenza quotidiana e con meritatissima fortuna, un ciclo di podcast nei quali traeva spunto dai quotidiani avvenimenti della competizione per svolgere più ampie riflessioni politiche (il ciclo è stato poi fedelmente riversato in “Impressioni di settembre. Quasi un diario elettorale”, volume edito da Colonnese e che ci sentiamo di consigliare come uno dei rarissimi lasciti positivi di una campagna elettorale non propriamente esaltante).
Ebbene, nella puntata del 30 luglio, Velardi si occupa proprio “di coerenza, una parolina usata e abusata in politica, nella comunicazione politica, tra i commentatori e i giornalisti, e soprattutto brandita come un’arma finemondo, in maniera ossessiva e devastante, sulla rete e sui social”. In particolare, l’ex Lothar dalemiano mette a confronto due frasi emblematiche della tensione tra coerenza e realtà. La prima è di Enrico Berlinguer che nel 1982, quando Velardi militava nel PCI, in televisione disse: “La più grande fortuna della mia vita? Essere rimasto fedele ai miei ideali di gioventu’. La seconda è attribuita a John Maynard Keynes, uno dei più grandi economisti del ‘900: “Quando i fatti cambiano, io cambio la mia opinione, Lei cosa fa signore?”. Da un lato, osserva Velardi, il feticcio della coerenza (“di fronte alla realtà che ogni giorno ci presentava i suoi conti, ci assediava con le sue bellissime e colorate novità, eravamo addestrati a rispondere con il richiamo alla coerenza dei nostri presunti principi”); dall’altro, lo straordinario pragmatismo keynesiano in cui “non sono le mie idee a guidare, è la realtà che comanda”.
Ecco, non possiamo negare che , a dispetto dell’inflessione non propriamente british della premier, ci ha un poco galvanizzato sentire l’eco delle parole di Keynes quando Meloni ha detto che “dal 2019 ad oggi il mondo è cambiato, stiamo affrontando una situazione emergenziale che ci impone di fare alcune scelte” e a seguire ha snocciolato la più banale e logica lista delle spesa, ossia l’elenco di ciò che non si sarebbe potuto fare, in sede di legge di bilancio, se si fosso optato per la proroga dello sconto sulle accise. Vi abbiamo visto, per un attimo, uno sprazzo di quella colossale operazione di verità alla quale il Paese si sottrae da decenni e nella cui assenza germogliano le verità di comodo e fioriscono immaginari nemici esterni (la BCE,il MES, i mercati, gli speculatori cattivi). Era uno spunto tanto più prezioso, quello di Meloni, perché simili atteggiamenti sono una riconosciuta specialità dell’attuale coalizione di governo e in parte (ancor oggi, giacchè il passato non ci interessa) dello stesso presidente del consiglio.
Ci siamo illusi che si aprisse un dibattito su come trovare quel miliardo circa al mese necessario per prorogare la misura, se abbia senso farlo mentre il prezzo dei carburanti è ancora contenuto, se sia realistico pensare che lo Stato possa rinunciare a quegli introiti a fronte di un debito pubblico delle dimensioni che conosciamo ed il cui costo è destinato a lievitare sempre più in conseguenza dell’aumento dei tassi di interesse. Insomma, un salutare corpo a corpo con la Realtà, l’unico vero potere forte.
Nulla di tutto ciò. Gli altri interlocutori politici hanno preferito maramaldeggiare sull’incoerenza di Meloni (per carità, un po’ ci può pure stare, la politica non è un pranzo di gala, ma neppure può essere solo propaganda), crocifiggerla all’inequivocabile valore accusatorio di questa o quella passata dichiarazione. Lo hanno fatto gli avversari, compresi quelli che in campagna elettorale brandivano l’agenda Draghi (che è innanzitutto un metodo, quello appunto di far di conto con la realtà) e che successivamente devono averla sostituita con la Smemoranda. Lo hanno fatto pure gli alleati, pronti a condividere con il premier e il suo partito il potere, ma non l’impopolarità. Lo ha fatto buona parte dell’informazione.
Nel dibattito, insomma, il principio di coerenza ha prevalso ancora una volta su quello di realtà. Del resto, la coerenza soddisfa alcune tendenze ormai egemoni della nostra cultura politica. Coerenza è eticamente parola con un segno più davanti, è moralisticamente corretta. Coerenza, inoltre, rimanda al legame indissolubile con il supremo giudice della coerenza, il popolo, e quindi garantisce il dogma populista per cui i leader politici debbono in realtà essere follower dei loro elettori. Attenzione, tuttavia, perché Aldous Huxley diceva: “La coerenza è contraria alla natura, alla vita. Le sole persone perfettamente coerenti sono i morti”. I cimiteri, insomma, sono pieni di coerenti. Forse anche di Stati falliti o commissariati.