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di Stefano Ragni

Il Festival delle Nazioni di Città di Castello cambia registro e manifesta nuove potenzialità. Il passaggio delle consegne da parte di Aldo Sisillo, prestigioso direttore del Comunale di Modena, impossibilitato a rivestire il ruolo di responsabile  artistico per incompatibilità istituzionali, ha messo il posto vacante nelle mani di un prestigioso strumentista, il flautista romagnolo Massimo Mercelli. 

Inoltre l’importantissima carica di presidente del Festival è stato assegnato a Silvia Polidori, fascinosa imprenditrice montonese in quota, con molti meriti, a Confindustria. Si tratta quindi di esponenti delle generazioni più giovani che si presenteranno alla ribalta della manifestazione internazionale con nuove idee, con atteggiamenti non viziati da abitudini pregresse, e, soprattutto, desiderosi, ne siamo certi, di mostrare la vitalità di chi ha accettato, con entusiasmo, di misurarsi con una ribalta che, per vocazione, si rivolge alla vasta platea mondiale.

Da parte sua Mercelli, classe 1959, diploma a Bologna, già diciannovenne primo flauto dell’Orchestra del teatro La Fenice di Venezia, presenze a Berlino, Vienna e Mosca, definisce i contorni di un musicista di alta levatura. Familiare  a un grande del Novecento come Penderecki, Mercelli ha avuto pezzi dedicati da compositori del livello di Nyman, Sollima, Bacalov, Gubaidulina e Morricone. Tra questi ci sono premi Oscar che, non dubitiamo, saranno  messi presto sul piatto della bilancia.

Le ultime edizioni delle Nazioni, quelle con cui Sisillo ha realizzato una formidabile tripletta di impegni, con la Spagna dell’Impero  “dove non tramonta mai il sole”,  con l’Italia dell’età coloniale e con il Portogallo della “Rivoluzione dei garofani” hanno segnato il raggiungimento di una qualità di proposte che non è sfuggita ai competenti organi ministeriali, che hanno assegnato al Festival riconoscimenti che, concretamente, vogliono dire scalare la classifica in termini di contributi finanziari. Sisillo non si sarebbe potuto congedare dalla città nella maniera migliore.

Certo, quando avviene un avvicendamento, è legittimo da parte dei nuovi arrivati dimostrare le competenze che tutti si aspettano, ma questo non vuol dire imboccare necessariamente, strade divergenti da quanto si era acquisito.  Era successo anche a Sisillo di prendersi la eredità della gestione Gandini, il maestro veneziano che nel lungo periodo della sua permanenza ai vertici delle Nazioni aveva saputo firmare edizioni straordinarie e per certi versi indimenticabili come quella del 1985 con il percorso Monteverdi, Schütz e Bach, o il 1986, nazione ospite il Belgio, con i Fiamminghi a tutto tondo, e Roberto Fabbriciani che apriva la strada allo Sciarrino dell’integrale per flauto. Con l’affermazione, appena l’anno dopo, di “Vanitas” con la regia di Luca Ronconi. Ancora, se vogliamo continuare a ricordare, le impressionanti sequenze delle masse sul tema “L’homme armé” , una sorta di percorso ariostesco nell’Europa di Huizinga narrato dal prestigioso complesso vocale di “Pro cantion antiqua”.  Gandini riuscì a portare anche l’opera lirica con “Le donne rivali” e i “Turchi amanti” del 1994-95, direzione di Alberto Zedda e regia di Maurizio Scaparro. Ma l’opera l’ha portata anche Sisillo  con la straordinario palcoscenico “guarany” del “Sant’Ignazio” di Domenico Zipoli, affresco da film “Mission” con tanto di santi cantanti e nativi in piume di uccelli esotici.

Ora, ragionando con Mercelli, non nuovo a direzioni artistiche nel territorio romagnolo, veniamo a sapere della sua intenzione di produrre sostanziosi innesti multiculturali, con differenti contributi di forme di contemporaneità. Lo spazio territoriale tifernate sarà investito da forme di collaborazione tra realtà culturali locali e grandi solisti che si presteranno a una forma di partecipazione formativa alla loro crescita. Inoltre sarà adottata al massimo la cooperazione con altri Festival italiani, al fine anche di ridurre sostanzialmente le spese di allestimenti. 

Resterà per ora irrisolto il ruolo del tessuto economico alto tiberino, finora restio a riconoscere che la cultura è ncessaria, costa e va pagata. Affinché non resti irrisolto il monito espresso  del capo dello Stato, Sergio Mattarella, che nel discorso  di Agrigento-capitale della cultura,  ha espressamente parlato del suo valore precipuo e inestimabile. Ma queste sono parole se poi qualcuno non mette concretamente mano al portafoglio.

Difficile, comunque,  parlare di cosa “non si è fatto” alle Nazioni. perché negli anni 90 transitavano personaggi come la Fracci, Proietti, Gasmann, Comencini, Pavarotti, Carreras, finanche Alain Delon. Al di là della mondanità, artisti come Rostropovic, il violoncellista della “parestroika”, il Quartetto Amadeus e il Tatrai avevano segnato vertici ineguagliabili del camerismo internazionale.

Già il “camerismo”.

Perché tutto era nato così, una semplice vetrina di musica da camera. 

Tutto sbocciò nel burrascoso 1968. A settembre  si rese manifesto ciò che avevano architettato alcuni probiviri melomani, l’intento era di quello di portare un prodotto di qualità nella cittadina tifernate che si affaccia sul Montefeltro, ma che non aveva una sua specifica connotazione musicale. Perugia, come la Sagra e gli Amici della Musica e Spoleto, con il Lirico Sperimentale e il colosso dei Due Mondi, erano centri propulsori e internazionali già dagli anni ’40 e ’50 e godevano di un pubblico internazionale che portava il prestigio e l’economia proprie del turismo colto. In Altotevere non si era mai visto niente del genere, ma allora l’economia tirava: c’era la media industria, fiorivano le botteghe artigiane, si sviluppava il mercato dell’oro verde, la foglia di tabacco. La bellezze architettoniche erano evidenti in un centro di età romana che con la sua torre cilindrica faceva ripensare   all’età del corridoio bizantino, quel lembo di terra tra Roma e l’Esarcato di Ravenna che aveva sottratto anche parte dell’Umbria alla conquista longobarda.  Piero della Francesca e Raffaello era presenti con opere certe e Burri era già una presenza cospicua dell’informale internazionale.

Il manipolo di personaggi visionari e generosi di aggregò. Si citano, a memoria, i nomi della giornalista Eliana Pirazzoli, Claudio Mollaioli, il sindaco Luigi Angelini,, Nemo Sarteanesi, Gianni Novello. Gianfrancesco Lignani Merchesani, probabilmente per i suoi personali rapporti con un ambasciatore argentino, costituì il legame con un prestigioso complesso, la “Camerata Bariloche” . Fondato nel 1967 a Buenos Aires,  era una formazione di europei che, si diceva, fossero fuggiti dalle regioni baltiche e della Germania all’indomani del crollo del nazismo. C’erano anche alcuni italiani. Musicisti scelti, comunque. La città andina di Bariloche, ancor oggi un centro turistico di rilievo internazionale, diventò la sede di un laboratorio di studio per sessioni di perfezionamento,  che si dotò presto di un prestigioso laboratorio di camerismo di alto livello. Erano imminenti  i tempi di Videla e di  Pinochet, e si sapeva che in Cile e Argentina si erano rifugiati molti criminali nazisti e fascisti, ma allora nessuno  avrebbe associato un complesso musicale all’orrore  delle repressioni politiche. Guida della Bariloche era un prestigioso violinista Alberto Lysy, portegno di antiche origini ucraine, pupillo di Yeudy Menhuin e e già concertista incoronato  da un prestigio a cinque stelle. Niente di più convincente quindi che aprire le porte della città di Venanzio Gabriotti a un insospettabile nucleo di musicisti talentuosi, a cui si univa un altro componente di alta fisionomia artistica, il flautista Renè Clemencic, che sarà poi artefice della lettura di tanto repertorio del passato. Dal 7 al 15 settembre del 1968 la musica risuonò per  quattro appuntamenti con una repertorio per formazioni da camera, con autori il più moderno dei quali era Mozart. 

Partenza elegante e smussata, ma l’inquietudine dei tempi correnti produsse un singolare concerto alle Officine Nardi, con Lysy che sfoderava il suo violino Guarnieri per il commndator Silvio, che allora era uno dei cosidetti “padroni” della città. Un “capitalista”, come si diceva,  che patteggiava coi suoi operai portandogli un po’ di musica aristocratica: Purcell, Rameau, Haydn, Vivaldi. Se non altro qualcosa di meno drammatico e urtante di quello che proponeva allora Luigi Nono nelle fabbriche lombarde. 

Per rievocare il senso di vicende così lontane da noi i cui protagonisti sono tutti scomparsi e la memoria delle generazioni più recenti non ha elementi per ripristinare l’ottica delle immagini, bisogna ricorrere a un libro di memorie scritto da un grande protagonista delle vicende sociali, civili e artistiche del territorio tifernate, il senatore Venanzio Nocchi, tra i più giovani sindaci tifernati, per decenni sostenitore e parte integrante del Festival, fino alla traumatica rottura del rapporto.

Lo conoscemmo come Gabrio, quando frequentava il corso di canto della signora Ongaro al Morlacchi di Perugia. Era una voce di basso, imponente, maestosa,   che tuonava nella aula di canto che noi chiamavamo “la tomba” per la sua assenza di finestre. Prometteva molto bene quando “ululava” le congeniali arie del “Simon Boccanegra” e de l“Don Carlo” di Verdi. Ma la politica ebbe il sopravvento. 

Ora, sfogliando alcune pagine del suo cospicuo volume di memorie, dal titolo emblematico di “Pensieri all’inizio del tramonto”,  nelle oltre cinquecento pagine di memorie  politiche e di riflessioni sociali legate  alla classe operaia da cui Nocchi si sentiva provenire, ce ne sono non poche dedicate al Festival, dalle origini, al suo sviluppo, alle sue crisi e al definitivo distacco che segnò per sempre la vita di questo grande personaggio della storia tifernate. Chi le vorrà sfogliare troverà conferme su nomi e circostanze già esposte, ma potrà cogliere l’amore e l’entusiasmo per una creatura che poi, con rammarico, si è visto sfuggire.   Al di là delle beghe e delle controversie inevitabili in una piccola comunità dove tutti si conoscono, ma non tutti si amano, sarà bene che il Festival, e questo sarà compito della Presidente Polidori, ritrovi una unitarietà  proprio sondando il suo ricco passato.