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di Walter Patalocco

La voce del padrone. A Terni Sembra di esser tornati indietro di decenni nell’atteggiamento di qualche imprenditore, vero e presunto che sia. Chissà, forse la causa sono i tappeti rossi srotolati, riconoscimenti o cittadinanze onorarie assegnati forse per dimostrare che la città è aperta ai contributi di tutti e che si instauri un rapporto imprese, città, territorio.
Una disponibilità scambiata da qualcuno per debolezza, o considerata atto di sottomissione.
È capitato, così, per esempio quando l’Ast è diventata di proprietà del gruppo Arvedi. Il cavaliere non ha adottato il principio che a suo tempo i tedeschi della ThyssenKrupp resero esplicito in dichiarazioni e comportamenti: “Acquisendo il polo siderurgico noi siamo diventati parte di un secolo e mezzo di storia di Terni”, specificò in più occasioni Harald Esphenan, amministratore delegato dell’Ast. Poi sempre di impresa si parla: un colosso qual era la TK decideva e operava secondo i programmi decisi. Ci furono vertenze durissime come quella dell’acciaio magnetico. Ma si teneva conto, anche in Germania, che acciaierie a Terni significa non solo altiforni e laminatoi, ma l’architrave dell’economia, della storia, della società cittadina e umbra.
La nascita di quella fabbrica non è a caso considerata la seconda fondazione di Terni, dopo quella avvenuta circa 2.700 anni fa. Quella fabbrica che ha portato lavoro, possibilità di crescita, benessere. Ma niente è stato gratis. Terni e i ternani le acciaierie le considerano di loro proprietà perché hanno pagato conti non leggeri: gli stravolgimenti ambientali, l’accrescersi a velocità vertiginosa dei propri abitanti con seri problemi sul fronte dell’igiene, della salute, della possibilità di vivere in case decenti; il conformarsi di una comunità cresciuta in fretta a causa di un’immigrazione massiccia che mise a stretto contatto la gente del posto, abituata ai ritmi lenti di una vita rurale e artigiana coi francesi, arrivati per mettere in opera i forni Martin, gli abruzzesi, i marchigiani, i romagnoli, il resto degli umbri. E poi i bombardamenti e le distruzioni belliche, i licenziamenti di massa, con le migliaia di prepensionamenti degli anni Ottanta del secolo scorso, che significarono una perdita massiccia di posti di lavoro tanto che, il censimento del 1991, decretò la fine della Terni “operaia”: il settore con il maggior numero di lavoratori – nel 1991 – risultò essere in terziario.
Se la fabbrica è tutto questo per i ternani, chi diventa titolare dei macchinari, dei capannoni, delle produzioni lo diventa anche di tutto il resto. I problemi della fabbrica sono i problemi della comunità ternana.. Tutto ciò per dire che, in ogni modo, si chiede confronto, colloquio, condivisione per il massimo possibile di idee, prospettive, disponibilità ad assumere impegni: “socializzare” – per usare un termine improprio – il problema.
Non è così, con il cavaliere. Le decisioni sono comunicate a termini di legge: fermate, cassa integrazione, riduzione di opportunità per l’indotto, abbandono al loro destino di realtà operative una volta partecipate da Ast. Da un anno, ormai, si aspetta un piano industriale che – lo si comprende – non può essere definito nei particolari in un periodo di incertezza come quello che il mondo sta traversando, ma del quale si potrebbe in una qualche maniera cercare uno spirito guida, un canovaccio, una manifestazione di volontà per quando, prima o dopo, la situazione generale dell’economia cambierà. Coinvolgendo tutti gli stackeholders, cittadini, lavoratori, imprenditoria, istituzioni a partire dal Governo per scendere alla Regione, al Comune, agli altri Comuni umbri. Governo a parte, le Istituzioni umbre sembrano invece stare alla finestra. Magari mentre anche altri si comportano da padroni, andando avanti rispetto all’Ast, permettendosi di irridere cittadini, istituzioni, rappresentanze politiche e sociali, sventolando disponibilità economiche, autocelebrandosi come imprenditori super-efficienti, annunciare candidature a sindaco allo scopo – dicono – di far crescere, almeno un po’, la società dell’Umbria del sud a suo dire fatta di incapaci.
È il caso di Stefano Bandecchi, giunto a Terni anni fa sulla spinta di qualche “capobastone” politico, trasferendovi da Fondi (provincia di Latina,vicino al confine con quella di Caserta) l’attività di presidente di una squadra di calcio. A lui i tappeti rossi sono stati srotolati dopo qualche tempo dallo sbarco a Terni: cittadino onorario, nominato lo stesso giorno in cui Perugia consegnava la stessa onorificenza a monsignor Gualtiero Bassetti.
Dietro a tutto si intravede una debolezza estrema delle forze politiche ternane, tutte preoccupate di non perdere il consenso dei tifosi della Ternana di Bandecchi. Forze politiche che non replicano a comunicazioni ridondanti, promesse velleitarie che si muovono sulla cresta dell’onda di un facile populismo e sul “piagnonismo” di molti ternani nei confronti di una Perugia ed una Regione Umbria matrigne; Istituzioni che per recepire qualsiasi richiesta sono costrette a barcamenarsi tra normative esistenti e desideri, mantenendo una dignitosa – ma solo apparente – indifferenza. Lasciando campo aperto a chi si comporta da “padrone delle ferriere”.