di Ludovica Cacciamani
Un’ora, minuto più, minuto meno, gran parte della quale caratterizzata da silenzi. Un fondale nero e scarno in cui all’inizio è difficile distinguere tra realtà e immaginazione, veglia e sogno. Non serve molto altro ad Emma Dante per rapire il pubblico del Teatro Morlacchi di Perugia con “Pupo di zucchero – la festa dei Morti”, l’ultima “creatura” della drammaturga e regista italiana, liberamente ispirata al seicentesco “Lo Cunto de li cunti” di Giambattista Basile. Nessun orpello scenografico. Non è necessario quando si deve parlare della Morte. Perché questa porta in scena “Pupo di zucchero”, favola barocca tra tradizione e meraviglia che celebra la memoria dei defunti attraverso le loro esistenze passate e la pienezza della vita. A differenza de “Le sorelle Macaluso”, spettacolo in cui manca la percezione del pubblico di capire chi è vivo e chi è morto, in “Pupo di Zucchero” diventa chiarissimo il confine tra estinti e non. Un confine che, verso la fine, va sempre più assottigliandosi.
Un vecchio solo e sconsolato (Carmine Maringola) in una casa vuota prepara con acqua, farina e zucchero il pupo per il 2 novembre. Si fa così in alcuni luoghi del Meridione dove vige l’usanza di allestire banchetti di dolci e di biscotti in cambio dei regali che i defunti, nel giorno della commemorazione dei morti, portano ai bambini. L’impasto non accenna a lievitare, al contrario dei pensieri del vecchio che assumono le sembianze dei familiari defunti. E così, la casa da vuota che era, si riempie di ricordi e di vita. L’uomo spalanca la porta alle amate sorelle Rosa, Primula e Viola (rispettivamente Nancy Tribona, Federica Greco e Maria Sgro), all’anziana mamma dal cuore tremolante rimasta vedova troppo presto (Stephanie Taillandier), al giovane padre disperso tra le onde del mare (Giuseppe Lino), a zio Antonio (Valter Sarzi Sartori) e al suo amore criminale per zia Rita (Martina Carappa), a Pasqualino il figlio adottivo (Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout), allo spagnolo Pedro (Sandro Maria Campagna) innamorato pazzo di Viola.
La spoglia dimora torna ad animarsi di ricordi felici e spensierati, ma anche dolorosi e raccapriccianti. Di gioie, amori, frustrazioni, violenze, lutti. Tutte cose che si trovano in una famiglia, anche quella dei defunti sul palco che inizia sempre di più a prendere vita, ad emergere con forza dal buio. Una famiglia di morti viventi di cui nessuno ha paura. Perché la morte in “Pupo di Zucchero” non è un tabù, non è scandalosa, non è oscena e nemmeno spaventosa: è piuttosto una parte inscindibile della vita del protagonista che egli mostra al pubblico senza timone, con punte di ironia e sparuti sprazzi di ilarità. La morte è l’unica cosa che possiede veramente: passato, presente e futuro. La stanza arredata dai ricordi diventa così luogo dove le tre dimensioni convergono e in cui i cari estinti del vecchio ritrovano le loro abitudini, ballando. Donne e uomini, vecchi e giovani compiono una danza macabra, ognuno abbracciando il proprio scheletro, il proprio fantoccio tumefatto, il proprio grottesco manichino (dieci spettacolari e suggestive sculture di Cesare Inzerillo). Una danza macabra al contrario però, perché le anime danzanti non celebrano la supremazia della morte, piuttosto il trionfo, la festa della vita.