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di Flavio Fusi

La sera vai a letto sereno e sventato, e la mattina ti svegli con una bastonata: “ha vinto Milei”… ma come, ha vinto Milei? No llores por mi Argentina. Eppure, ero stato avvertito: successe anche sei anni fa con Donald Trump. Alle sette di mattina, ancora mezzo addormentato: “ha vinto Trump”, disse mia moglie. Ma come Trump? Non doveva vincere Hilary, la sposa di Bill, l’eterna aspirante, la prima della classe e delle donne in politica? E invece fu presidente eletto il miliardario dai capelli arancioni, l’analfabeta funzionale, il bancarottiere e puttaniere confesso, lo scassinatore della flaccida democrazia americana. E si è visto poi, cosa è successo: l’assalto a Capitol Hill, la merda – dico merda – gettata a piene mani sulle sacre istituzioni, il culto delle armi, la violenza sguaiata contro le donne, il disprezzo razzista verso ogni diversità.
Poi toccò al Brasile, terra grandiosa e disgraziata: il paese incantato e sanguinante di Guimaraes Rosa e Jorge Amado. Nel momento fatidico il popolo sovrano scelse Jair Bolsonaro, un sergente marmittone radiato dall’esercito, impresentabile fellone analfabeta e terrapiattista, spregiatore delle donne e piromane dell’Amazzonia, negazionista e criminale. Sotto Bolsonaro presidente, il flagello del covid fu declassato a influenza stagionale e le fosse comuni si riempirono di migliaia e migliaia di poveracci: in gran parte gli stessi che pochi mesi prima nei seggi elettorali delle campagne e delle favelas avevano tracciato la croce sul nome del candidato della destra estrema.
Oggi tocca a Javier Milei, essere urlante sbucato dal nulla, occhi porcini e basette incolte, una scomposta matassa di capelli al vento e parole d’ordine pornografiche. Eccolo, il nuovissimo presidente, il candidato vittorioso che si presenta ai comizi imbracciando una sega elettrica con la quale promette di tagliare gli attributi allo “Stato ladro e pedofilo”.
Eccolo, l’uomo che minaccia di appiccare il fuoco alla Banca centrale di Buenos Aires e che giura che sostituirà il peso argentino con il dollaro americano. Il nuovissimo presidente anarco-capitalista, il libertario dell’estrema destra che promette di proibire l’aborto, autorizzare la vendita di organi – la proprietà privata del corpo è sacra – e liberalizzare il commercio delle armi. Eccolo, l’uomo che non riconosce né padre né madre né famiglia alcuna e che viaggia, abita e dorme insieme a quattro
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cani mastini a ciascuno dei quali ha dato il nome dei suoi economisti preferiti. Una ventata di pazzia ha investito le piazze di questo sventurato paese. E del resto, Javier Milei brandisce con orgoglio il soprannome di “loco”: un marchio di infamia e di sfida che si porta addosso dai tempi dell’infanzia, quando il padre violento lo bastonava chiamandolo “pazzo”.
Ma attenti a farsi sviare dal folklore del personaggio. Quello che agita l’uomo che da domani siederà alla Casa Rosada è un discorso di odio di classe capillare e ben indirizzato. Non a caso Milei ha scelto come bersaglio Papa Francesco, il pontefice argentino, definito di volta in volta “essenza del male” e rappresentante del maligno sulla terra, un “gesuita falso che diffonde nel mondo il germe del comunismo assassino.” Non a caso il nuovo presidente intende cancellare ogni residuo dello Stato sociale in un Paese che ha il 40 per cento di poveri assoluti e una inflazione che viaggia verso il 140 per cento all’anno. Non a caso Milei intende confusamente riscrivere la storia recente dell’Argentina. Non a caso colei che sarà la vice-presidente, la sconosciuta Victoria Villaruel, si è distinta come negazionista della dittatura argentina e non smentisce di voler chiudere il Museo della memoria che a Buenos Aires ricorda i crimini dei militari al potere.
Nella politica globale è ormai tempo di freaks, esseri abnormi, scherzi di natura. Ma non è questione di destra o di sinistra: se brutti ceffi come questi diventano presidenti, significa che ha fallito la democrazia. Che la democrazia stessa è in pericolo, mangiata dall’interno: un albero secco, il guscio vuoto. Non a caso, i primi a congratularsi con il presidente eletto sono stati il russo Putin e il cinese Xi. E Donald Trump, naturalmente: “sono molto orgoglioso di te, e sono sicuro che renderai di nuovo grande l’Argentina” scrive l’ex presidente americano, di nuovo in corsa per riprendersi il potere a stelle e strisce.
Infine: chi ama questo Paese straordinario e dolente non può oggi fare a meno di interrogarsi su quella condanna che lo costringe, negli anni e nelle generazioni, a ripetere il dramma e la tragedia. Quasi uno sporco e violento fiume carsico che scorre nelle viscere, nelle entranas, della nazione: sotto l’amore, sotto il tango, sotto la nostalgia, sotto la passione, sotto il coraggio e la resistenza e il dolore e l’orgoglio smisurato. Negli anni trenta un grande e infelice scrittore fu interprete di questa Argentina dannata e violenta. Roberto Arlt – portegno e figlio di immigrati prussiani – scrisse romanzi del sottosuolo, espliciti fin dal titolo: “I sette pazzi”, “I lanciafiamme”, “Il giocattolo rabbioso.” Viene dunque dalle entranas, dalle viscere profonde del Paese, questo presidente: un giocattolo rabbioso che porterà l’Argentina – questa sventurata Argentina – all’ennesimo disastro, solitario e finale.